«Gli uomini che piangono nel sonno, e poi dicono: Niente. Non è niente. Solo un sogno triste». Così cominciava “L’informazione” di Martin Amis, un incipit che mi porto dietro da molto tempo: con il pianto degli uomini, tabù dei nostri padri, cominciavano anche i miei trent’anni, all’epoca in cui segnai queste parole sul taccuino. Piangevo perché mi sentivo rinchiuso in una vita senza passione né significato, e non riuscivo a vedere davanti a me un futuro da inseguire.
La lettura (e le lacrime) sono cose da uomini
In quella crisi finii per lasciare Milano e andare a vivere in montagna, e tempo dopo sui miei mesi in baita scrissi un libro, “Il ragazzo selvatico”, che mi fece incontrare, per la prima volta, dei lettori uomini. Avevo sempre avuto lettrici, ed ebbi la sensazione di scoprire un piccolo pubblico che fino ad allora era rimasto nascosto, silenzioso, forse vergognandosi un po’, come quegli uomini di Amis che piangono di notte per non farsi sentire dalle mogli. Fu un lettore a dirmi che avevo scritto un libro sulla crisi del maschio. Io non ci avevo pensato. Disse più o meno così: questa è un’epoca in cui abbiamo perso il senso della nostra natura maschile, e tu hai scritto la storia di uno che è andato a cercare quel senso in montagna. L’idea era nuova, per me, ma ci ho sentito subito della verità, e allora ho cominciato a ripensare alla mia esperienza in questo modo.
I bambini sentono la mancanza di figure maschili nell’infanzia
Intanto è vero che, salendo alla quota dei boschi e dei pascoli, ero andato a vivere nel paese degli uomini. Io sono stato uno di quei bambini cresciuti tra le donne, e ho sempre sentito la mancanza di maestri. Dov’erano gli uomini durante la mia infanzia? Non negli appartamenti, nelle cucine, nelle aule scolastiche. Ne trovai due in montagna, e diventarono presto miei amici: uno era un pastore di mucche, un amante della buona compagnia che andavo a trovare nella capanna in cui abitava d’estate (una stanzetta di tre metri per tre senza acqua né bagno), e dove passavamo le serate a bere vino da grandi bottiglioni e parlare di bestiame, pascoli, formaggio, e della vita da montanaro di cui volevo sapere tutto. L’altro era un uomo più silenzioso, un costruttore di case, gran lettore del tutto autodidatta. Con lui parlavo di alberi e animali, di scrittori e libri di montagna, e anche di donne e solitudine. Per puro caso, entrambi i miei amici erano appena usciti da un matrimonio e si ritrovavano, dopo tanti anni, in una condizione dolorosa ma anche nuova, aperta agli incontri e alle possibilità. Ero più o meno allo stesso punto anch’io.
L’amicizia tra uomini non è fatta di parole
Però la parola non era la sostanza della nostra amicizia. Nessuno di noi riusciva a stare seduto a un tavolo troppo a lungo, così le nostre conversazioni erano fatte più di mezze frasi tra un silenzio e l’altro, o tra un lavoro e l’altro. A me piace molto, delle amicizie, il fare qualcosa insieme, perché le parole sono d’aria mentre le cose si toccano con le mani, e mi sembra che le cose costruite insieme diano concretezza ai rapporti tra le persone, e ne siano il frutto migliore. Quello che facevo con i miei amici era spaccare legna e raccogliere fieno, zappare un orto o riparare un muro a secco. E accorgermi di essere, benché più giovane di loro, molto meno allenato al lavoro fisico: mi stancavo prima e il giorno dopo avevo male dappertutto. Questo mi faceva arrabbiare, perché da ragazzo ero stato un atleta e non sopportavo l’idea di avere perso tutta la mia forza in una decina d’anni. Ho cominciato a recuperarla con gesti nuovi: impugnare un’ascia o un forcone o una zappa, sentire che le mani imparavano un lavoro e si abituavano a una fatica, era una gioia. Il corpo, il mio corpo di uomo, si irrobustiva e si asciugava come se ringiovanisse.
Il risveglio della parte selvatica fa sentire forti
Intanto, da solo, me ne andavo a camminare. Nei mesi del disgelo, man mano che la neve scopriva sentieri sempre più alti, raggiunsi tutte le cime che avevo intorno a casa, e poi, finite quelle, cominciai a uscire dai sentieri e a vagabondare per i luoghi nascosti sotto le cime: boschi, torrenti, pietraie. Sperimentavo il senso di meraviglia degli esploratori: scoprire un laghetto nascosto in una conca, o raggiungere una cresta e vedere cosa c’è di là, o voltare dietro un masso e ritrovarsi faccia a faccia con un camoscio sorpreso, e guardarlo negli occhi per un istante prima della fuga. Sentire in quello scambio qualcosa di primordiale, come una parte mia selvatica che era stata sopita dalla città e si risvegliava in montagna.
La solitudine insegna il coraggio e rende creativi
Dalla baita osservavo il limitare del bosco e verso sera vedevo spuntare tra i larici la volpe, la lepre e il capriolo. Imparavo a riconoscere e a chiamare per nome le piante e gli animali, come prendendo possesso di parole che non mi erano state insegnate, anch’esse parole antiche dimenticate dalla città.
E insieme, in quelle sere, imparavo la solitudine. Che mi faceva paura e me la fa ancora, ma dentro la solitudine c’era un tesoro nascosto per me che è la scrittura. Mi era stata tolta, non so quando, o forse è più giusto dire che si era prosciugata come una vena d’acqua durante una lunga siccità, e a un certo punto, mentre facevo questa vita lassù, ricominciò a sgorgare. È l’ultimo regalo che mi ha fatto la montagna, ma questa non è una cosa da maschi.