Organizzano marce di protesta

Sabato 24 marzo più di 800 manifestazioni sono state organizzate in tutto il mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del controllo delle armi negli Stati Uniti. Si chiamano March For Our Lives” (letteralmente, “Marcia per la nostra vita”) e sono il frutto dell’impegno dei ragazzi sopravvissuti alla sparatoria del 14 febbraio 2018 a Parkland (Florida), quando il diciannovenne Nikolas Cruz – un ex studente espulso per problemi disciplinari e già conosciuto per la sua inclinazione verso le armi – ha ucciso diciassette persone nella Marjory Stoneman Douglas High School. Attraverso le interviste a televisioni e giornali, le prime marce spontanee e una grande attività social iniziata con l’hashtag #NeverAgain (“mai più”), gli studenti di Parkland hanno dato vita a un vero e proprio movimento, raccogliendo il testimone di quanti prima di loro – dagli attivisti di Black Lives Matter agli altri sopravvissuti a quella che in America si chiama “gun violence”, violenza da armi da fuoco – hanno richiesto a gran voce una legge per regolamentare l’accesso alle armi nel loro Paese.

Secondo Associated Press, la marcia di sabato scorso a Washington DC è stata la più grande protesta giovanile avvenuta nella capitale dai tempi delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam: in strada c’erano infatti 800mila persone. Emily Witt ha scritto sul New Yorker che March For Our Lives ha inaugurato frai giovani un nuovo modo di esercitare il diritto di protesta, perché «il grido contro la violenza è stato accompagnato da un sentimento molto pop, dalla cooperazione delle multinazionali [quelle che hanno sponsorizzato la marcia offrendo snack e servizi, ndr] e dalla consapevolezza di avere un grande privilegio, quello di essere ascoltati».


Utilizzano i social come strumento di denuncia

I ragazzi di Parkland hanno infatti raccolto un consenso ampissimo: sono stati appoggiati dai veterani dell’esercito e da molte associazioni che non vogliono “bannare” le armi ma sono favorevoli a una regolamentazione più restrittiva di quella in vigore, attualmente li vediamo sulla copertina di TIME e di Teen Vogue (quest’ultima solo digitale), mentre i loro account social sono seguitissimi. Emma González, la ragazza queer che ha fatto il discorso più emozionante di tutti (durato sei minuti e venti secondi, il tempo della sparatoria nella sua scuola, di cui metà passati in silenzio a trattenere le lacrime) ha infatti 1 milione e quattrocentomila followers su Twitter, mentre David Hogg, un altro studente della Marjory Stoneman Douglas, ne colleziona all’incirca 550mila.

Molto diversa la situazione di Muhammad Najem, quindici anni, che vive nella Ghouta orientale (nei dintorni di Damasco) e, come riportano tutti i giornali che si sono occupati di lui, da grande sogna di fare il giornalista. Per ora, documenta con selfie e video i bombardamenti che hanno distrutto la sua città, ucciso suo padre e molti dei suoi amici e conoscenti, fatto chiudere la scuola che frequentava, ridotto la sua famiglia alla povertà e all’incertezza. Muhammad racconta così la guerra in Siria, intervistando altri ragazzi che vivono la sua stessa condizione: per ora ha poco più di 23mila followers e si sforza di scrivere/tradurre in inglese per farsi leggere da quante più persone possibile. In uno degli ultimi video, postato domenica 25 marzo, ha detto di essere in procinto di lasciare quella che era la sua casa. Nel video appare il suo amico Slim, anche lui in partenza: non sanno se si reincontreranno in futuro. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, tra il pomeriggio e la serata di domenica 25 sono partiti da Ghouta orientale dieci pullman diretti a Idlib, che da mesi è il centro di raccolta degli sfollati provenienti dalle zone bombardate.

Non hanno paura di mettersi in gioco

Nei tanti commenti che si possono leggere sotto agli articoli che parlano degli studenti di Parkland, sono in molti a definirli «la generazione Obama». Cresciuti a social network e conseguente attivismo “social”, i ragazzi nati dopo il 1999 fanno sentire per la prima volta la loro voce e sembrano avere le idee molto chiare riguardo al futuro che vorrebbero. Come nota Witt nell’articolo sopracitato, questi ragazzi sanno di essere dei privilegiati e, allo stesso tempo, sanno sfruttare i mezzi che hanno a disposizione. C’è anche chi li accusa di essere manovrati dall’alto, chi di calpestare il Secondo emendamento della Costituzione (quello che sancisce il diritto di detenere armi) e con esso uno dei fondamenti della società americana, chi di sfruttare l’orrore a cui hanno assistito per farsi pubblicità.

Al di là delle letture faziose, però, la forza comunicativa di questi ragazzi è incontestabile, così come è interessante osservare il modo in cui stanno cambiando gli strumenti della protesta: alla marcia per il controllo delle armi c’erano celebrity, giornalisti, merchandising (felpe, magliette, cappellini) e cartelli coloratissimi tutt’altro che improvvisati – li avevamo già visti alla Women’s March, dopo l’insediamento di Donald Trump – ma c’erano anche i genitori, i fratelli più piccoli, una miriade di associazioni unite da un unico, grande, obiettivo comune. Dall’altra parte del mondo, invece, Muhammad è solo, ma posa serio per i suoi selfie con il ciuffo sempre diligentemente pettinato: non ci resta che sperare diventi un giornalista per davvero da grande, perché sarà bravissimo.