La vita e il lavoro di molte di noi sono in qualche modo legati al mare e alla pesca. Lo facciamo da sempre. E dovunque. Nelle Filippine con reti bianchissime cucite a mano. In Norvegia con gli arpioni a caccia di halibut, un pesce predatore dalle carni delicate come quelle del rombo. In India con enormi ceste di bambù cha somigliano a vele. In Namibia con delle specie di nasse per prendere le aragoste. Anche i numeri lo dimostrano.
Quante donne nel mondo praticano la pesca
Il 47% dei 120 milioni di persone nel mondo che si mantengono con la pesca sono donne, e lo fanno promuovendo metodi tradizionali e rispettosi dell’ambiente e un turismo che insegna a mantenere il mare ricco e pulito. In Italia siamo ancora in poche a pescare: gli ultimi dati Istat dicono che delle 4.016 imprese di pesca oggi attive nel nostro Paese solo 598 sono a guida femminile. Ma sembra che qualcosa stia cambiando, perché stiamo riscoprendo e rendendo sempre più sostenibile questo mestiere antico, affascinante e misterioso proprio come il mare. A dimostrarlo, le protagoniste di queste quattro storie.
Antonella, 38 anni, di Messina
Sono le 7 di sera e dopo più di 12 ore in mare Antonella Donato, laureata in Scienze politiche, un passato in un’agenzia di viaggi, oggi presidente dell’Associazione Pescatori di Feluche dello Stretto, finalmente può togliere gli stivali di gomma che le arrivano fino alla vita. «Devo comprarne un paio più bassi. Se con questi cado in acqua quando calo le reti, rischio di annegare…» mi racconta mentre scende da Pia, la magnifica feluca che, insieme a sua sorella Giusy, ha rilevato nel 2012 da nonno Marco, un pescatore che del mare conosceva ogni segreto e che fino a 89 anni non ha mai smesso di uscire in barca. «Tutte le notti in mare, ci faceva svegliare alle 3. “Vi stancherete” ripeteva. Nessuno credeva che avremmo resistito. E invece ce l’abbiamo fatta, e abbiamo imparato a pescare il pescespada».
La pesca con la feluca
Una pesca antica e rispettosa, quella con la feluca, un’imbarcazione che ricorda le navi greche, con al centro una torre di 18 metri, dove Antonella passa la maggior parte del tempo, da fine aprile ad agosto, dalle 6 del mattino a quando cala il sole. «Avvistare la preda senza radar non è semplice. A volte vedi l’acqua che si increspa, a volte c’è solo un riflesso argento o rossiccio. Serve un occhio attento e molto paziente: in questo lavoro hai tanti tempi di attesa. E soprattutto non hai una seconda possibilità: se gli arpionatori sbagliano a tirare la lancia, il pescespada scappa». D’inverno Antonella scende dalla torre di comando della feluca e sale sulla Pina, un gozzo di 6 metri che porta il nome di sua nonna, e con cui fa il tramaglio, una pesca storica, senza ausilii meccanici, che mantiene l’antica parità tra uomo e pesce. «Il tramaglio è una rete da posta lunga dai 200 ai 300 metri con cui peschiamo pesce azzurro: triglie, boghe, salpe, saraghi» spiega. Un pescato definito “povero” ma di grande valore nutrizionale e soprattutto di grande bontà. «Sveglia alle 4 del mattino, alle 5 siamo in mare. Si decide dove andare a calare. Per attirare i pesci si deve far rumore, noi diciamo “buddiare”. Alle 7 siamo già di nuovo a terra. Stacchiamo il pesce dalle reti, se va bene ne prendiamo 50 chili altrimenti 20 o 30, e rigettiamo in acqua quello che si è incagliato per errore: dal mare vogliamo prendere solo quello che serve. Nessuno spreco, nessuno sfruttamento. Poi andiamo a venderlo allo stesso rigattiere del nonno e aggiustiamo le reti».
Barbara, 51 anni, di Porto Cesareo (Lecce)
«I miei nonni erano pescatori, ma io con il mare non c’entravo niente». Inizia così Barbara Orlando, parrucchiera, che dal 2005, quando ha chiuso il salone, è diventata pescatrice. Il merito? Del marito, che d’estate la portava in barca. «Alla fine ha vinto il mare, un destino di famiglia» scherza, con un sorriso così felice che cancella in un attimo dal viso i segni della stanchezza. La giornata di Barbara a bordo di Sparviere, la sua barca bianca e blu, inizia presto: dalle 4 del mattino a mezzogiorno sta al timone, poi salpa le reti e fa il rimessaggio. «Devo ammetterlo, mio marito è più bravo a pescare, soprattutto con il palamito, fatto di grandi ceste con gli ami con cui si “va a pesci buoni” come la spigola e il dentice».
La pesca al servizio del turismo
A Barbara piace di più il tramaglio, la rete da posta, con cui pesca le seppie, le sue preferite. Ma soprattutto a lei piace la pescaturismo. «È un’educazione al mare, al rispetto della natura. Insegno a usare la canna e il bolentino, e quello che tiriamo su lo friggo a bordo» racconta prima di salutarmi per andare ad aggiustare la rete, pronta a ripartire domani mattina, ad attraversare di nuovo quel blu che tanto la fa stare bene. «Quando ho iniziato, gli altri pescatori mi dicevano: “Perché sei a bordo? Le femmine devono stare a casa”. Adesso quando non mi vedono chiedono a mio marito dove sono».
Eva, 48 anni, di Genova
Chi le ha viste, le lampare, conosce bene la magia di quelle mille luci tremolanti nel blu profondo del mare di notte. Una magia che, dopo tanti anni, continua a emozionare Eva Orecchia, mamma e nonna giovanissima, che su quelle piccole barche ci è salita da piccola e non è più scesa. «Mio papà ha fondato circa 30 anni fa la Cooperativa pescatori genovesi e mi ha tramandato questa passione. Non puoi fare il pescatore se non l’hai nel cuore, perché è un mestiere duro» racconta mentre prepara le polpette di acciughe che venderà nel chiosco in darsena. «Io sono il jolly: non esco tutti i giorni in mare, mi occupo anche della vendita all’ingrosso e al dettaglio, in un mercato a palafitte nel porto di Genova. Mi piace consigliare le ricette ai miei clienti. La mia preferita? Gli hamburger di lanzardo» continua.
La pesca con la lampara
Quando esce, Eva va con la lampara, una barca da 18 metri che dentro ne contiene due più piccole, dette chiari, tutte tempestate di luci. La stessa luce che si vede nei suoi grandi occhi nocciola quando racconta di quel mare che conosce alla perfezione: «Sta cambiando. L’acciuga qui da noi c’è sempre, ma è più piccola. Ci sono invece specie che stanno scomparendo del tutto, come lo sgombro, in una stagione ne prendiamo al massimo 10 cassette. E specie nuove che arrivano, come il pesce serra, un predatore dalla carne delicata tipo quella del branzino».
Cigdem, 50 anni, di Istanbul
«Ti dico solo che da bambina non mangiavo neanche il pesce!» ride Cigdem, mentre parla al telefono e prepara per pranzo gamberi fritti, la sua ricetta del cuore. In Turchia lavorava nella contabilità, nel 1992 viene in Italia, prima a Rimini e poi a Cesenatico, e si mette a fare la mamma e la casalinga. Ma nel 2013 decide di dare una mano a suo marito che, dopo essere stato marinaio, finalmente riesce a comprarsi la sua barca: Dilarc, dai nomi dei loro due figli. «Soffrivo il mare. Per un anno intero vomitavo tutti i giorni» racconta. Ma, fiera e testarda, non molla e ogni sera, alle 7, esce in mare. Si occupa delle reti, di calarle e salparle, perché a ricucirle, nonostante lei abbia la passione dell’uncinetto, ci pensa lui.
La pesca a strascico
«Noi facciamo la pesca a strascico, un metodo particolare in cui la barca non si ferma mai: butto le reti, le lascio in mare 3-4 ore, poi le salpo, tolgo i pesci, di solito gamberi, canocchie, sogliole, e le ributto» dice. E così, ininterrottamente, fino alle 10 del mattino. Ma in quelle reti, purtroppo, non ci finiscono solo i pesci. «Mi capita di trovarci ruote di biciclette, lavatrici, bottiglie di plastica, sacchetti» racconta, facendomi vedere il “bottino” di una notte, almeno 20 chili di spazzatura. Che, in nome della difesa del mare che tanto ama, Cigdem raccoglie sulla sua barca, divide e vende a un’associazione che la ricicla.