«Sai che perderai questi bei capelli?» dice l’infermiera a Elena prima di iniziare la chemio in un day hospital romano. A casa la aspettano alcune parrucche, per quando dovrà dire temporaneamente addio alla sua chioma bionda e lunga con la frangetta, «il mio segno di distinzione, la mia fissa, una volta me la tagliarono troppo corta e piansi per un mese». Non è strano accorgersi dell’importanza di qualcosa quando inizia a mancarti.
Un libro racconta la storia culturale dei capelli
Nel caso di Elena Martelli, autrice del saggio All’aria sparsi. Storia culturale dei capelli (il Saggiatore), quei peletti che piano piano, dopo le cure, iniziano a pungerle il capo facendola piangere di commozione, perché annunciano la sua rinascita, sono la molla per buttarsi a capofitto nei successivi 3 anni in una ricerca inedita: la storia umana, politica, etnica, religiosa, antropologica dell’universo complesso che portiamo sulla testa da quando veniamo al mondo. «Lo shock di vedermi glabra non poteva essere solo vanità, sentivo qualcosa di ancestrale legato sia alla mia femminilità, sia al fatto di avere 50 anni. Mi affacciavo alla menopausa e mi trovavo davanti a una cesura: ci sarebbe stato un prima e un dopo e l’addio ai capelli – in verità non mi era rimasto un pelo in tutto il corpo – è arrivato come un sigillo».
I capelli sono il nostro “passaporto”
Se dovessimo tracciare una mappa tricologica dell’umanità, dovremmo iniziare addirittura dall’homo sapiens: la sua testa cespugliosa sopra il corpo nudo è l’elemento di specie che permise di identificarlo immediatamente come altro dai primati. «Portavamo la nostra strana capigliatura come una bandiera» scrive il sociologo Desmond Morris. La chioma ci rese riconoscibili anche da lontano e comunicava chi eravamo. Ancora oggi è il nostro passaporto: racconta di noi età, salute, umore, gusti, stato sociale, etnia, religione. È uno “statement” quando è un pixie cut cortissimo sulle teste delle signore come Judy Dench o delle ragazze gender fluid come Kristen Stewart, quando è un bob fluo e mutante come quello Billie Eilish e persino quando non ce ne curiamo. «Anche se viviamo in un’epoca di liberazione dai canoni estetici classici, i capelli ci definiscono comunque, sono un manifesto pure se siamo spettinati perché affermano la nostra volontà di essere al di fuori di un parametro» spiega Elena Martelli.
Il taglio simbolico di una ciocca in solidarietà alle donne iraniane
I capelli femminili sono stati spesso oggetto di divieti
Usati da tutte le religioni per codificare rigidi divieti estetici, considerati elemento di seduzione al punto da accusare di stregoneria le donne che li portavano lunghi e ribelli nel Medioevo, trasfigurati in parruccone civettuole per i nobili settecenteschi, i capelli – soprattutto quelli femminili – sono stati oggetto di qualsivoglia trasformazione e imposizione e sono ancora un simbolo fortissimo di discriminazione di genere. «È successo in Iran, quando l’anno scorso la polizia morale ha arrestato e ucciso Mahsa Amini perché portava “male” il velo» ricorda Elena Martelli. «E ricapita ora nell’Afghanistan dei talebani: dopo aver reintrodotto il burqa, il ministero della Prevenzione del vizio ha deciso di chiudere i parrucchieri e i centri estetici per donne». E cosa dire della giornalista russa Elena Milashina, che a luglio in Cecenia è stata aggredita, rasata a zero e cosparsa di diserbante verde?
La rasatura può avere vari significati
«La rasatura è il segno dell’umiliazione, per Primo Levi era il primo passo con cui nei campi nazisti annullavano la tua identità» spiega Martelli. Quando è invece un gesto volontario, viene letto come instabilità: tutti ricordano il crollo nervoso di Britney Spears nel 2007 mentre si tagliava a zero i capelli biondi. Nel 2019 il gesto è stato replicato dall’attrice simbolo del #MeToo Rose McGowan con questa motivazione: «Ho chiuso con l’ideale hollywoodiano che mi vedeva come una Barbie e che contribuivo ad alimentare, a me sembrava di assomigliare a una bambola gonfiabile». Il rifiuto del neofemminismo di aderire ai canoni patriarcali va di pari passo con la riscoperta dei capelli come simbolo di identità etnica. Se negli anni ’50 fu Malcolm X a liberare la comunità afroamericana dall’abitudine di stirare chimicamente i ricci per aderire al modello estetico wasp («Mi sono sottoposto a grandi torture per assomigliare a un ideale di bellezza bianca e non solo tradivo la mia identità ma la stavo nascondendo»), oggi si deve alle muse dello star system la riaffermazione e l’orgoglio delle proprie origini anche attraverso le chiome naturali.
Lisci o ricci, i capelli diventano anche un messaggio politico
Come Beyoncé, che passa con disinvoltura dal super liscio al super riccio soprattutto quando vuole lanciare messaggi sul girl power, aderire ai movimenti black «e magari fare anche un po’ di marketing» ironizza Elena Martelli. O come Ifemelu, la protagonista del romanzo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, che torna in Nigeria dopo aver vissuto negli Stati Uniti e parla spesso dei rigidi canoni delle treccine per afroamericani. Anche la politica “risente” della questione black hair: solo dopo aver lasciato la Casa Bianca, Michelle Obama si è sentita libera di indossare i suoi veri ricci durante il tour dell’autobiografia Becoming, nel 2019, pochi giorni dopo che la California aveva approvato la prima legge contro ogni forma di discriminazione verso i capelli afro o di altre etnie, il Crown Act. La stessa vicepresidente Kamala Harris, durante la campagna elettorale con Joe Biden, venne presa di mira per la piega stirata e ancora oggi, nelle sue rare apparizioni, non è riuscita a mollare la spazzola.
Anche i leader maschi comunicano con l’acconciatura
Che l’acconciatura dica più di tante parole lo sanno anche i leader maschi. Il ciuffo biondo-arancio smaccatamente falso dell’ex presidente Usa Donald Trump non è forse funzionale a farlo apparire il cattivo di un cartone animato? Al contrario, la chioma del premier canadese Justin Trudeau comunica bellezza e giovinezza, sigillate dal successo dell’account Twitter @TrudeausHair. «Persino quando i capelli sembrano “sciocchi”, li stiamo sottovalutando» avvisa Elena Martelli. «Sulla pettinatura di Silvio Berlusconi, per esempio, si è scritto di tutto anche in modo molto sarcastico, ma per lui aveva un significato preciso: se poteva aggiustare la sua testa, poteva aggiustare l’Italia».