L’età dei disturbi alimentari si sta progressivamente abbassando e i primi sintomi possono comparire già nei primi mesi di vita.

L’inappetenza, il disordine alimentare, l’obesità infantile e tutte le manifestazioni psicosomatiche come i ripetuti attacchi di acetone, le allergie, le coliche, sono linguaggi del disagio. Bisogna imparare a leggerli, ad ascoltarli.

La diagnosi precoce consente di curare il disturbo con facilità, senza lasciare tracce. Per la mia esperienza, quasi tutte le ragazze che in adolescenza si sono ammalate di anoressia e bulimia avevano inviato durante l’infanzia infiniti segnali, tutti ignorati dai genitori. Scegliendo il digiuno, è come se avessero drasticamente alzato il tiro.

Diagnosticato in tempo, prima che si trasformi in un sintomo anoressico strutturato e rigido, il disturbo alimentare può essere curato. A volte bastano poche sedute, due o tre incontri con i genitori, per rimettere in moto la comunicazione interrotta. Per tornare alle parole, ai gesti anziché al ricatto alimentare.  

Ma perché un bambino smette di mangiare? Cosa lo spinge a interrompere il legame con la madre, quasi volesse riscrivere il linguaggio dell’imboccare e del nutrire?

Sembra che il cibo sia la preoccupazione principale dei genitori. Basta assistere a un’assemblea di una scuola elementare: nessuno interviene sui programmi o sul materiale didattico, ma appena si parla della mensa, tutti vogliono parlare, le madri si infervorano a discutere di diete bilanciate, menù settimanali.

I figli però non sono tubi digerenti, caso mai sono spugne sensibilissime, che assorbono emozioni, tensioni, clima familiare. Se i genitori si nascondono dietro l’utopia dell’accudimento alimentare, prima o poi, il bimbo impara a usare il cibo come un alfabeto.

L’anoressia è la messa in scena di un rifiuto, un modo di dire no all’affetto surrogato, a un rapporto freddo, ingessato sul dovere, sul fare, sul riempire. Dire no al cibo equivale a dire no a un surrogato dell’affetto. È un messaggio lanciato ai genitori, una richiesta di aiuto e di attenzione.

La bulimia è l’altra faccia della solitudine: non chiedo più nulla a chi non mi sa amare. Faccio da solo, mangio tutto. Al punto che il cibo diventa una specie di oggetto transazionale. L’equivalente patologico del succhiotto, dell’orsetto. È la coperta di Linus, il compagno che rende più sopportabile la lontananza o peggio la latitanza della madre.

L’enfasi sull’alimentazione nasce da un paradosso, da un ribaltamento dell’ordine affettivo: prima si desidera un bambino, poi ci si dovrebbe prende cura di lui, ma a volte alcuni genitori si scoprono freddi e distanti, e si preferisce chiedere continuamente al piccolo “Perché non mangi?” invece di interrogarsi sui suoi stati d’animo e su quello che sente chiedendogli “Perché sei triste?”.