«Né poverini, né eroi. Abbattiamo lo stigma della disabilità». Il titolo del secondo talk sui tabù del corpo che Donna Moderna ha tenuto nell’ambito di I feel good, il nostro evento dedicato al benessere, dice già molto. Le due ospiti, Chiara Bordi, attrice, e Lisa Noja, consigliera della Regione Lombardia e attivista, hanno spiegato al pubblico come si vive nel nostro Paese con una disabilità, soprattutto se sei donna e sei discriminata due volte. E cosa possiamo fare per abbattere pregiudizi e stereotipi.
Il difficile percorso per accettarsi
Chiara Bordi è partita dalla sua storia, da quando a 13 anni la sua vita è cambiata per un brutto incidente in motorino che le è costato la perdita di una gamba. Ha raccontato di quanto è stato complesso il percorso di accettazione del suo corpo e di quanto è pesato lo sguardo degli altri. «All’inizio c’era il confronto con la me di prima e con lo sguardo degli altri che era cambiato. Per diversi mesi cercavo di evitare di vedere il riflesso della mia immagine per intero allo specchio, tanto da essermi creata una sorta di mappa mentale della casa con i punti in cui c’erano vetrine, specchi, finestre, in modo da poter girare lo sguardo altrove».
Ci vorrebbero più attrici e sceneggiatrici con disabilità
Poi Chiara non solo è arrivata ad accettare il suo corpo ma ha dimostrato come avere una protesi non sia una condanna ma semplicemente un modo diverso di muoversi nel mondo. Non ha rinunciato ai suoi sogni e alle sue aspirazioni e dopo essere arrivata terza al concorso di Miss Italia è entrata nel cast di Prisma e I Fantastici 5. Due serie tivù che hanno segnato un importante passo avanti nella narrazione della disabilità perché finalmente una delle protagoniste è una ragazza con disabilità interpretata da un’attrice con disabilità.
Cambiare la narrazione della disabilità è importantissimo perché il tipico modo di raccontarla non corrisponde alla realtà
Chiara Bordi
«Faccio un esempio: una ragazza con una disabilità dopo un incidente, non si accetta, magari pensa al suicidio e riesce ad accettarsi solo quando incontra l’amore. Che messaggio gravissimo stiamo trasmettendo? Questo succede anche perché le persone con disabilità non vengono incluse nei processi creativi dei prodotti audiovisivi e i personaggi con disabilità vengono descritti da sceneggiatori e sceneggiatrici non disabili, senza la consulenza o l’ascolto di chi ha una disabilità. E poi i personaggi vengono interpretati da attori e attrici senza disabilità, creando così un loop infinito in cui si continua ad avere una narrazione che rinforza gli stereotipi invece che combatterli».
Le donne con disabilità sono più a rischio di violenza
Cambiare la narrazione sulla disabilità, rappresentare i corpi non conformi in tivù, nel cinema, nella moda, nella pubblicità è fondamentale per cambiare sguardo sulla disabilità e fare in modo che venga vista come una delle possibili condizioni della vita. Anche nelle campagne di sensibilizzazione sulla violenza di genere sarebbe importantissimo che venissero rappresentate anche le donne con disabilità. Che vengono escluse come se fosse una cosa che non le riguarda. E invece le riguarda eccome, come ci ha spiegato Lisa Noja: «Le donne con disabilità corrono un rischio da 2 a 5 volte maggiore di subire violenza rispetto alle altre. E persino i centri antiviolenza e le case rifugio non sono accessibili.
Per una donna con disabilità anche fare la denuncia è molto più difficile, perché magari la persona che ha abusato di lei è la stessa che se ne occupa nella vita quotidiana.
Lisa Noja
E fa più fatica a riconoscere quando c’è stato un abuso, ha ancora più paura di non essere creduta. Se per le donne con disabilità c’è lo stereotipo del “Se la sono cercata” per le donne con disabilità diventa “Figuriamoci se un uomo può aver abusato di lei”. È impensabile che una donna con disabilità possa essere stata oggetto di violenza perché si considera che abbia un corpo privo di qualsiasi attrattività. Non apparire mai nelle campagne di sensibilizzazione alimenta dunque questi pregiudizi, fa sentire ancora più sole e invisibili».
Non una donna ma un’eterna bambina
Il pregiudizio più impattante che vede le donne con disabilità come esseri asessuati, eterne bambine che non si contempla nemmeno possano avere una vita sessuale, sentimentale, desiderare un figlio o una famiglia, ha delle ricadute anche sul diritto alla salute, soprattutto quella sessuale e riproduttiva, come ci spiega sempre Lisa Noja: «Le donne con disabilità si sottopongono il 15 per cento in meno ai test di screening per la prevenzione dei tumori. Perché gli ambulatori ginecologici, non sono attrezzati per riceverle: ce ne sono solo 5 in tutta Italia accessibili. Gli altri non sono dotati degli elevatori per permettere alle loro pazienti di salire sul lettino ginecologico, gli spogliatoi non permettono di svestirsi a chi può farlo solo da sdraiata, i macchinari per la mammografia sono pensati per chi è in piedi. Quindi a volte si rinuncia alla prevenzione. E il problema non riguarda solo chi ha una disabilità motoria ma anche chi ha una disabilità intellettiva o sensoriale. Immaginiamoci per esempio cosa significa non poter andare in autonomia in un consultorio, essere costrette ad avere qualcuno che parli per te perché sei sorda e nessuno conosce la lingua dei segni».
Le frasi da non dire
Sono tante, insomma, e a tutti i livelli le discriminazioni che una donna con disabilità subisce nella vita quotidiana. Comprese le frasi dette magari in buonafede. «Quando mi sento dire che una donna con disabilità è pur sempre una persona andiamo malissimo» ha raccontato Lisa Noja. Oppure “Io al tuo posto non ce la farei” e a me viene da rispondere: “Guarda, ce la faresti benissimo perché non è che si ha la possibilità di scegliere, non è una questione di coraggio”. E Chiara Bordi le ha fatto fa eco: «E quando mi dicono che sono fortissima? Questo è il riflesso del pregiudizio che chi ha una disabilità debba per forza avere avere una vita brutta e triste. Oppure, peggio ancora, quando mi dicono che loro al mio posto si sarebbero uccisi? Come se fosse preferibile essere morti piuttosto che vivere con una disabilità».
Le barriere sono anche culturali
Le barriere da abbattere non sono solo quelle architettoniche ma anche e soprattutto quelle culturali. E l’abilismo, cioè le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità, si vince anche partendo dal linguaggio. «Sicuramente può fare la differenza dire persona con disabilità, ponendo quindi al centro la persona e non la sua disabilità, piuttosto che diversamente abile o disabile» ha affermato Chiara Bordi. «Io non ho idea di chi abbia coniato il termine diversamente abile, ma è inascoltabile. Non diresti mai diversamente etero o diversamente magro! Può sembrare una forma di gentilezza ma non è assolutamente corretto perché presuppone che ci sia una norma, cioè un corpo abile, e ci siano dei corpi che si discostino da quella norma».
C’è ancora molto da fare per garantire pari diritti per tutti e per tutte. Ognuno di noi però, come abbiamo visto, può contribuire a un cambiamento culturale che porti a una società più inclusiva. E una società più inclusiva, che non lasci indietro nessuno, non è solo un fatto di civiltà ma è un vantaggio per tutti.