Le notizie e le immagini di guerra, come quelle sulla pandemia Covid, possono generare ansia e stress. Gli esperti spiegano di cosa si tratta
Richieste di aiuto, immagini di popolazioni allo stremo o alle prese con attacchi e lanci di razzi, notizie di violenze e torture, morti e feriti hanno un effetto devastante su molti di coloro che ne sono bersagliati. Il fenomeno è poi amplificato da internet, dove le notizie e i commenti corrono velocissimi. Il risultato è il rischio di finire in un vero e proprio “buco nero digitale”, fatto di stress e ansia.
Il buco nero digitale crea ansia e stress
A interrogarsi sul fenomeno non sono solo gli esperti italiani. Nel Regno Unito, per esempio, Natalia Dayan, esperta in salute mentale che lavora per una linea di supporto telefonico spiega che “nella nostra era digitale, la gente è bombardata da informazioni che arrivano da fonti diverse” e che possono portare a quella che è detta overload information. Insomma un’infodemia paragonabile a quella conosciuta durante la pandemia da Covid.
Troppe informazioni di guerra da internet
«Certamente questa è una caratteristica della nostra epoca, nella quale è aumentata la quantità di informazioni, ma è cambiata anche la qualità. Una volta si poteva contare solo sulla stampa, poi è arrivata la tv, con i primi canali: oggi siamo bersagliati da una quantità di canali spropositata, ma anche dai social che sono diventati fonte stessa di informazioni, specie per i più giovani», spiega Maria Angela Grassi, presidente della Presidente Nazionale di ANPE (Associazione Nazionale dei Pedagogisti Italiani). «Il pensiero va proprio a loro, perché oltre appunto a un maggior numero di informazioni, va considerato che la maggioranza delle notizie che arriva è di tipo allarmistico. Il rischio è un’overdose di informazioni negative», aggiunge la pedagogista.
I rischi dell’infodemia: lo tsunami emotivo
Essere informati è importante, per conoscere cosa accade vicino e lontano da noi, ma anche per formarsi una coscienza critica. Esiste, però, una soglia oltre la quale ci può essere il rischio di uno “tsunami emotivo”, come viene chiamato da alcuni esperti: «È la condizione di chi perde il controllo delle proprie emozioni. Può capitare ai giovani, che andrebbero educati a filtrare e gestire le informazioni che arrivano loro, in modo corretto o adatto alla loro età. Ma spesso gli stessi genitori o gli insegnanti a scuola non sono in grado perché sono cresciuti in un’epoca in cui non c’erano tutti questi mezzi e modi di comunicare. A rischio sono poi anche le persone con fragilità legate all’età, come gli anziani: nel loro caso guardare la tv tutto il giorno, specie se da soli, può amplificare il fenomeno, finendo per generare loro ansia», spiega Grassi.
Il rischio dell’indifferenza di fronte alla guerra e non solo
Di fronte a un eccesso di informazioni, però, può verificarsi una reazione opposta: «Si può sviluppare un’indifferenza emotiva, una forma di difesa, di scudo contro ciò che non ci piace vedere o sentire, come accade oggi con i disastri della guerra o come è avvenuto con le notizie della pandemia», spiega Carmen Leccardi, docente emerita di Sociologia della Cultura all’università Bicocca di Milano. «Di fronte a conflitti, di cui si sente parlare vedendo immagini sconvolgenti, bisognerebbe interrogarsi sulle loro cause storiche, sul quando, come e dove hanno origine. Ma questo nella maggior parte dei casi non avviene, perché viviamo nella società dell’accelerazione, che ci porta ad avere fretta. Queste notizie negative, inoltre, arrivano spesso nei momenti più familiari, come la cena. Il risultato è proprio il rischio di veder aumentare l’agitazione oppure di voler respingere ciò che ci fa star male, diventando indifferenti», spiega Leccardi.
Le notizie che polarizzano e creano scontro
Un altro effetto è quello di finire con il trasformare ogni notizia in un motivo di scontro: è accaduto in pandemia, con i favorevoli e contrari ai vaccini, ma si è ripetuto con la guerra in Ucraina e ora con il conflitto in Palestina. «In tutte quelle situazioni nelle quali c’è anche un aspetto etico in gioco, si finisce con il parteggiare per A o B, dimenticando la complessità delle situazioni. Ci si sente in dovere di rispondere alla domanda: da che parte sto? Questo, però, aumenta il sovraccarico di tensione emotiva individuale e sociale. Per questo alcuni si schierano, a volte in modo acritico, mentre altri preferiscono estraniarsi, chiudendo il canale dell’attenzione. Questo può accadere sia agli adulti, sia ai giovani. I teenagers, specie se in famiglia non se ne parla, possono quindi decidere di limitarsi a sintonizzarsi su ciò che si dice nel gruppo degli amici o all’opinione che percepiscono come dominante nella società», dice la sociologa.
Attenzione a fake news e guerra psicologica
A condizionare, poi, sono anche le fake news: «Ne siamo circondati, anche riguardo il conflitto tra Hamas e Israele. Ci sono interviste, come quella del leader di Hamas alla BBC araba, nella quale si afferma che non c’era volontà di scatenare violenze contro i civili, per esempio, che sono palesemente smentite dai fatti. Ma ci possono essere notizie veicolate ad arte anche da fonti ufficiali. È qui che, al di là della immediata reazione emotiva, dovrebbe subentrare la razionalità che ci permette di analizzare con maggiore obiettività», sottolinea Leccardi. «La guerra psicologica non è stata inventata oggi, ha radici profonde ed è un aspetto dei conflitti dove le opinioni contano molto», osserva Marco Cannavicci, psichiatra militare, già consulente del Ministero della Difesa.
Non farsi condizionare
«L’obiettivo di quelle che si chiamano in gergo “operazioni psicologiche” è proprio quello di influenzare la percezione di chi osserva da lontano. Scegliendo video, foto e didascalie giuste si muove l’orientamento delle opinioni del mondo occidentale. Per questo Hamas ha studiato ogni dettaglio nella pianificazione dell’attacco del 7 ottobre, puntando ai cosiddetti “obiettivi pregiati”, quello che hanno maggiore risonanza emotiva internazionale: giovani, bambini e persone fragili», spiega Cannavicci, che si è occupato della formazione di personale di intelligence e della comunicazione con la popolazione locale in teatri di missioni.
Dedicarsi a un impegno attivo
In questo contesto, ciò che può aiutare per evitare ansia e stress, ma anche indifferenza è l’impegno attivo: «Intanto, se si tratta dei giovani, il fatto di parlare di quanto accade – senza agitazione – può aiutare ad avere una visione meno superficiale dei fatti. Nelle situazioni emotivamente più forti, come accaduto anche in pandemia, più si sta insieme e più si riesce a raccontarsi le cose in modo più tranquillo. Può essere utile anche impegnarsi attivamente, per esempio con raccolte fondi o di medicinali: agire in prima persona aiuta a smorzare quei picchi di emozioni che poi possono trasformarsi in ansia e stress, fino a diventare potenzialmente patologici», conclude Grassi.