Il melanoma fa sempre meno paura. Perché oggi si sa di più sui meccanismi alla base della malattia. I ricercatori hanno dimostrato che il tumore ha la possibilità di formarsi e di crescere perché si creano dei veri e propri blocchi che impediscono al sistema immunitario di reagire. È’ una scoperta importante, che ha portato alla formulazione di nuovi farmaci per gli stadi avanzati. Ma non solo. Il bagaglio di conoscenze che ora ci sono in più consentono di effettuare diagnosi ad hoc. Il vantaggio? Una percentuale di guarigione pressoché totale nelle fasi iniziali della malattia.
La diagnosi superprecisa
Oggi grazie all’esame con il microscopio laser confocale e alla biopsia, gli specialisti sono in grado di mettere in luce l’architettura del melanoma. È possibile così conoscerne la profondità, la natura, cioè se è composto da cellule particolarmente attive, e identificare l’eventuale presenza di ulcerazioni.
Gli interventi mirati
Se il tumore è in fase iniziale è sufficiente l’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione del melanoma. Quando però dagli esami emerge la presenza di taglietti, oppure se è profondo, durante l’operazione viene effettuata la biopsia del linfonodo sentinella, cioè della prima ghiandola di tessuto linfatico che si trova nei dintorni del melanoma. Se contiene delle cellule maligne, il chirurgo asporta successivamente gli altri linfonodi della stessa area, in modo da ridurre il rischio di ritorno della malattia.
Le cure farmacologiche
I farmaci vengono prescritti quando il tumore è molto avanzato. A fare da apripista due anni fa è stato Ipilimumab, il primo di una classe di nuovi medicinali con meccanismi d’azione rivoluzionari. Riesce infatti a “sbloccare” il sistema immunitario che è in grado così di reagire contro le cellule tumorali e di combatterle. Nei casi più difficili, invece, cioè quando le cellule oncogene sono più resistenti a causa di una mutazione genetica, è già disponibile un altro medicinale, chiamato vemurafenib, mentre è allo studio un ulteriore principio attivo, chiamato Nivolumab, che al momento viene utilizzato all’interno di studi clinici.