Non ce l’ha fatta, Michela Murgia, che si è spenta alcuni mesi dopo l’annuncio della malattia – un cancro renale al quarto stadio – che le aveva lasciato poche possibilità di una prognosi positiva perché con metastasi «già nei polmoni, nelle ossa, al cervello”. In uno dei suoi ultimi post sui social la scrittrice aveva criticato la decisione della Rai di cancellare dai palinsesti il programma di Roberto Saviano, Insider, per poi scrivere direttamente dall’ospedale, ma senza perdere il sorriso, nonostante le cannule nasali dell’ossigeno. Come nelle ultime settimane, aveva aggiornato amici e fan sulle proprie condizioni, spiegando: «Posso stare meglio, ma non bene». Poi aveva ringraziato per la possibilità di curarsi, “in barba a chi demonizza chi paga le tasse”. Moltissimi i post e i messaggi di cordoglio da parte di politici, amici, ma anche gente comune. Tra le foto più toccanti, quella della scrittrice avvolta in un vaporoso abito rosso corallo, con il turbante in tinta sulla testa, mentre esegue un passo di danza: è quella pubblicata su Instagram da Lorenzo Terenzi, l’attore, regista, autore e anche musicista, conosciuto nel 2017 durante uno spettacolo teatrale in cui Michela Murgia era protagonista, che era lo scorso luglio era diventato suo marito con una cerimonia in articulo mortis. Murgia, infatti, aveva spiegato cosa l’aveva spinta alle seconde nozze e aveva raccontato della malattia e dell’idea della morte.
Murgia e il cancro incurabile: «Non voglio pietà»
Il tumore, infatti, si era presentato nel 2014, al polmone, ma allora Michela Murgia non ne aveva voluto parlare, perché – spiegava – «non volevo pietà». Poi, lo scorso maggio, ha raccontato la sua condizione, trovando la solidarietà di molti, come le critiche di altri per aver reso pubblica la malattia, come Fedez con l’intervento per il tumore al pancreas. «La storia di Michela Murgia abbraccia il tema di come (e se) raccontare la malattia» commenta Carlo Alfredo Clerici, professore di Psicologia clinica presso il Dipartimento di Oncologia ed emato-oncologia dell’Università degli Studi di Milano. «Personalmente credo nel valore del pudore, anche se condividere e raccontare non significa necessariamente calcare un palcoscenico. Ma credo anche molto nel fatto che la malattia non debba essere mai considerata una vergogna, per cui mi sembrano perdonabili anche esibizioni imprudenti».
I mancati controlli e la paura della morte
Michela Murgia non aveva rilasciato soltanto un’intervista, ma aveva raccontato la malattia e cosa stava vivendo in un libro appena pubblicato, Le tre ciotole: «È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa» spiegava. «È partito dal rene, ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli». «Dal quarto stadio non si torna indietro, ma non ho paura della morte», aveva confessato.
Cosa significa ricevere una prognosi infausta
C’è chi biasimava, dunque, il fatto di condividere il dolore della malattia, chi invece individuava una forza straordinaria nel coraggio di farlo: «Trovo noiose la retorica dei pazienti eroi e la metafora della guerra, nonostante la mia passione per le armi. Ma ciascuno deve essere libero di inventarsi un mito e viverlo. Essere malati significa sospendere il presente e il futuro. Perdere libertà e qualsiasi potere al mondo. Significa vedere il proprio corpo improvvisamente come un oggetto. Significa trovarsi ad avere come unico pensiero della giornata quello che un ago in una vena tenga almeno per un po’. Vuol dire attendere che una terapia porti benefici senza troppi danni. Significa imparare a fare evoluzioni con un trespolo da flebo per raggiungere il bagno», spiegava il professor Clerici.
L’importanza delle relazioni e degli affetti
Ma come si vive con un orizzonte temporale più ristretto? «Affetti e relazioni sono le poche cose che restano nella permanenza in ospedale – spiegava ancora lo psicologo clinico – Sono state condotte diverse indagini sulle persone a fine vita, chiedendo quali fossero i loro sogni e cosa avrebbero consigliato ai più giovani, e le risposte non lasciano dubbi: i beni materiali sono poco “protettivi” e relativamente importanti, anche se è indubbio che bisogna vivere e sopravvivere; anche il potere è un’illusione. Quando si ha una diagnosi infausta si riduce ciò che conta all’essenziale: le relazioni, la solidarietà, messaggi valoriali che possono essere religiosi o spirituali o di altra natura, ma essenziali».
Pensare al futuro è ancora possibile
Il futuro diventa meno lontano, ma – come spiegava Clerici – è possibile trovare anche risorse inaspettate: «C’è un motto che dice che quando l’acqua si alza anche la barca si solleva. Nei momenti estremi aumentano prodigiosamente le risorse personali. Pensare al futuro è ancora possibile. È come quando si va al cinema: si sa che è una finzione, ma si decide di crederci perché questo fa stare bene. Allo stesso modo, è possibile riuscire a sospendere la preoccupazione per il proprio stato di salute, per concentrarsi sulla vita, su singoli momenti che possano avere senso. In questo diventano fondamentali traguardi più ravvicinati, come il matrimonio o l’acquisto di una casa, e da un punto di vista medico le cure palliative», osservava Clerici.
Il diritto a ricevere buone cure
In molti parlano spesso del potere della “resilienza”: «La malattia è parte della vita ed è quindi ovvio che possa cambiare le persone. In meglio o in peggio dipende da fattori spesso inafferrabili e molto dal caso. La parola “resilienza”, però, la lascerei volentieri ai fisici e agli ingegneri. È un termine adatto ai tondini di ferro e non alle anime. La trovo una questione di rispetto – osservava lo psicologo clinico – Credo, però, nell’importanza di ricevere buone cure, che ritengo un diritto indiscutibile e universale, da difendere con molto più vigore di quanto sta facendo la politica e la stessa società civile. Sono anni che gli psichiatri vengono uccisi e non servirà qualche mesta fiaccolata per cambiare qualcosa».
Servono più cure palliative
Il tema della malattia con diagnosi infausta è anche strettamente legato a quello del fine vita, come dimostra il caso di Michela Murgia che nel riferirsi al matrimonio lasciava intendere la volontà di poter delegare il marito a una scelta delicata. «In una condizione di malattia terminale il tema non è solo continuare la cura o no. Se le scelte rimangono personali e la libertà è un diritto inviolabile, occorre che il mondo sanitario rifletta sulla relazione con il paziente» concludeva il professor Clerici. «Le cure palliative sono ancora poco sviluppate: solo quest’anno è nata la Scuola delle cure palliative, come se non fosse una disciplina degna di una formazione specifica. Il medico deve sempre dare speranza, che significa prestare attenzione ai sintomi, non mentire, ma cambiare il tipo di comunicazione. Una buona medicina non parla solo di dati oggettivi, di condizione clinica, ma anche di una dimensione spirituale e umana. Un esempio? Non occorre dire al paziente che guarirà sicuramente, ma è sufficiente augurargli una buona giornata, sottolineare eventuali condizioni positive che possano dare la speranza di compiere qualcosa di significativo il giorno dopo o quello successivo ancora, salutandolo con un arrivederci a domani: così gli si offre una dimensione temporale di speranza che è molto importante».