Puoi metterti nei suoi panni, esprimere dei giudizi o sdrammatizzare. Ma qual è la scelta migliore? Scoprilo con l’aiuto dello psicologo americano William Doherty: sull’argomento tiene dei corsi e noi lo abbiamo intervistato
«Ho bisogno di parlarti». Di solito è una frase come questa ad annunciarti che l’amica (o l’amico) ti ha scelta come sua confidente. Un ruolo che accade più spesso di quanto si pensi, come ha dimostratto una ricerca della University of Minnesota, che ha coinvolto 1.000 tra uomini e donne dai 25 ai 70 anni: il 73 per cento delle persone contattate almeno una volta nella vita si è ritrovata ad ascoltare una persona cara. E al centro delle confidenze, di solito, c’è una crisi di coppia.
Il fatto è che il 40 per cento di chi viene chiamato in causa non sa come aiutare l’altro. Non a caso uno degli autori dello studio, William Doherty, psicologo esperto in scienze delle relazioni affettive e presenza fissa dei talk show americani, tiene dei corsi per insegnare come si diventa il confidente perfetto. A lui abbiamo chiesto consigli e strategie.
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Come mai spesso lo sfogo di un amico ci mette a disagio?
«Perché ci fa sentire inadeguati: vorremmo risolvere il suo problema, ma sentiamo di non poterlo fare. Il più delle volte le confidenze riguardano difficoltà tra due partner, amici o colleghi di lavoro e solo i diretti interessati possono prendere in mano la situazione e fare qualcosa di concreto».
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Il senso d’impotenza rischia di farci compiere dei passi falsi?
«È così. L’istinto ci spinge ad abbassare la tensione emotiva e a dire subito qualcosa, qualsiasi cosa faccia stare meglio chi ci sta di fronte: frasi come “stai tranquilla, andrà tutto bene” oppure consigli avventati che, proprio perché frettolosi, di solito sono sbagliati. Ogni considerazione deve nascere da un’analisi approfondita del problema e non dal nostro bisogno di calmare le acque».
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Che cosa dobbiamo fare allora?
«Lasciar parlare la persona senza interromperla. L’ascolto di per sé non è una perdita di tempo, ma uno strumento capace di alleviare la sofferenza altrui. Lo dicono le ricerche: chi sente l’esigenza di avere qualcuno con cui confidarsi lo fa perché ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti e poi, eventualmente, di ricevere un buon consiglio. Ma è più importante sapere ascoltare con attenzione e, soprattutto, con una buona empatia».
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Esiste anche una empatia “cattiva”?
«Sì, è quella che cerca di sminuire o, peggio ancora, di cambiare i sentimenti dell’altro. Facciamo un esempio. Se un’amica confessa di essere in ansia per via di un esame medico delicato, non ha senso dirle: “Stai tranquilla, vedrai che non sarà niente di grave”, come se la sua preoccupazione non fosse legittima. La frase giusta è un’altra: “Ti capisco. Se fossi in te, mi sentirei allo stesso modo”. Così, si avvalora il suo stato d’animo e lo si accoglie, condividendolo».
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Ci sono altri errori da evitare?
«Quello di non schierarsi mai in modo categorico. Mettiamo che una collega riveli che il marito la tratta male. Se si comincia a inveire contro di lui, si commette un grave sbaglio. Nell’immediato, la reazione la conforta, perché la fa sentire meno sola, ma dopo qualche ora, a mente fredda, potrebbe sentirsi risentita per le parole espresse nei confronti del partner. In una situazione come questa (sia chiaro, mi riferisco a contrasti che escludono la violenza), il compito è aiutarla a guardare il suo rapporto di coppia sotto un’altra prospettiva. Per esempio, dicendole: “Mi domando come mai lui si comporti così”. Se ci si lascia andare a una reazione troppo veemente, poi, c’è spesso un altro motivo: si sta trasferendo un personale stato d’animo in una situazione che non ci appartiene».
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Il problema è che nelle confessioni altrui a volte riviviamo momenti dolorosi del nostro passato.
«Una delle prime regole che insegno nei miei corsi è quella di stabilire dei confini. Possiamo raccontare la nostra esperienza, ma dobbiamo farlo nel modo più distaccato possibile: solo dopo che l’altro ha finito di sfogarsi e senza dilungarci troppo nei dettagli. Non è poi detto che quello che è successo a noi valga per tutti. Quando spieghiamo come siamo usciti da un periodo negativo, quindi, dobbiamo farlo con delicatezza, senza pretendere di avere in mano delle soluzioni universali. La frase giusta da dire? “Non so se ti può servire, ma io ho fatto così…”».
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Durante la confidenza, c’è spazio anche per un abbraccio o una carezza?
«Sì, il contatto fisico può essere terapeutico, a patto di cercarlo nel momento opportuno. Mai mentre una persona sta esprimendo uno stato d’animo forte, come la rabbia, la voglia di vendetta o la frustrazione. Al contrario, una carezza va benissimo quando l’altro è triste, incredulo o sul punto di piangere, per fargli sentire in modo ancora più chiaro la nostra vicinanza. Un’amica che ha perso il lavoro, per esempio, va abbracciata nel momento in cui ci confessa che ha paura di non trovarne un altro e non quando minaccia di fare causa all’azienda».
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Se qualcuno ci rivela un segreto, siamo obbligati a mantenerlo?
«Sempre, a meno che non comprometta la nostra relazione con una terza persona. Per intenderci, se un’amica di cui non conosciamo il marito ci racconta di avere una storia clandestina, dobbiamo tacere. Se invece si tratta di una sorella, e siamo in ottimi rapporti con nostro cognato, è diverso. Quando lui lo scoprirà (come accade nove volte su dieci), si sentirà tradito due volte: da lei e da noi. Non ce la sentiamo di rivelare quello che succede? Allora dobbiamo fare un passo indietro e sfilarci in modo categorico dal nostro ruolo di confidenti».
Studi alla mano, per stimolare in modo diplomatico una persona cara in difficoltà le parole più efficaci sono queste quattro: “Sono preoccupata per te”.