Il vero problema per quanto riguarda il fallimento? Andare avanti, senza perdersi d’animo. Rinascere e costruire a partire da ciò che si è. Per farlo è necessario superare il senso di delusione. I fallimenti accadono di continuo, siamo così abituati ad averci a che fare da non farci nemmeno troppo caso. Aspettative deluse, progetti naufragati, ostacoli imprevisti e rovesci di fortuna; dalle disfatte finanziarie ai disastri sentimentali, il rischio di caduta in fin dei conti ci accompagna fin dai primi passi di vita.
Sai che cosa significa la parola “fallimento”? Il significato originario del verbo latino fallĕre è «far sdrucciolare, abbattere». Scivoliamo: può capitare. Cadiamo… e impariamo a rialzarci, ogni giorno
Tu che rapporto hai con i tuoi “sbagli”? La prima rivoluzione di cui abbiamo bisogno è quella del nostro sguardo. Forse non ci hai mai pensato, ma non esiste un unico modo di trattare “l’errore”. Consideriamo gli sbagli qualcosa che non dovrebbe capitare, un incidente di percorso: una (s)vista. Come ci racconta l’etimologia di “sbaglio”, crediamo che un abbaglio ci abbia confuso ed ecco che la vista si annebbia e diventa fallace. Ma in natura l’errore non esiste semplicemente perché diventa parte della storia.
Quando un albero nasce lo sviluppo dei rami integra tutto ciò che trova sul suo percorso. Osserva la miracolosa bellezza di un luogo come Angkor Wat, in Cambogia. In questo tempio millenario le piante si sono intrecciate alle pietre, nel cuore della giungla: è successo secoli fa e continua ad accadere. Desta stupore perché l’impensabile è accaduto ed è meraviglioso. Nel tempo si è creato un luogo unico al mondo, dove natura e storia umana sono inesorabilmente uniti. Quando siamo capaci di integrare le fratture della nostra storia creiamo bellezza, come in un’opera d’arte Kintsugi.
Tieni sul cuore questa immagine e inizia a ripensare alla tua storia così: tu sei tutto ciò che è accaduto. Nel diario della vita non ci sono pagine da strappare, così come ogni foglia o tronco marcio ha un suo ruolo nell’equilibrio di un bosco. La natura ci insegna a onorare quelli che noi ci ostiniamo a chiamare “errori”. Ci tuffiam0 nell’ignoto, riemergiamo dai buchi neri delle nostre paure; cadiamo e ci rialziamo da quando abbiamo imparato a camminare. La tenacia dei bambini è ammirevole perché non conosce il senso del FALLIRE, è solo SPERIMENTARE, pura emozione di scoperta. La nostra evoluzione si nutre dei nostri errori, lo sanno bene gli scienziati: in un laboratorio il tentativo fortunato arriva grazie ai mille che non hanno funzionato. È la storia degli errori a scrivere la nostra crescita e lo sviluppo del mondo: questa è una ragione per iniziare a osservare più rispetto verso i nostri fallimenti. E avere il coraggio di celebrarli.
“Hai mai provato? Hai mai fallito? Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”
Samuel Beckett
Come si affronta un fallimento?
Di solito stiamo zitti e incassiamo il colpo, ci hanno insegnato così. A testa bassa, si va avanti. Ti riconosci in questa descrizione? Di fronte a un fallimento la nostra capacità (e volontà!) di chiarezza diventa spesso confusa. Dopo il fattaccio la mente è come occupata da una nebbia densa e compatta dove è facile finire per perdersi. Ci si confonde; le ragioni e le mete non appaiono più così nitide, come se uno strato di polvere d’un colpo appannasse la vista. Del fallimento non si parla quasi mai volentieri, se non altro nella nostra società.
Del resto, studiamo la storia dal punto di vista delle guerre e dei loro vincitori; celebriamo le vincite nello sport con una coppa molto grande per il primo e a seguire dimensioni proporzionalmente ridotte. A fine anno contiamo e raccontiamo i nostri successi: nuovi clienti, auto, case, promozioni. Anche figlio e matrimoni rientrano nel calcolo, come se la costruzione di una famiglia o un amore siano un bonus di cui vantarsi. Insomma, sarà che anche il contesto non aiuta, celebrare un fallimento o almeno accettare di raccontarlo non è che ci venga proprio spontaneo.
“Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale; è il coraggio di continuare che conta”
Sir Winston Churchill
Eppure, contrariamente a ciò che stai pensando non si tratta di mandare giù il boccone indigesto, anzi. Meglio sputare il rospo. Se vogliamo avanzare almeno di un passo sulla strada dell’accettazione abbiamo bisogno di guardare ciò che è accaduto e riconoscere il suo valore nella nostra vita. Prendere la decisione di farlo può essere molto doloroso, ma è il primo passo capace di introdurre un cambiamento ancora prima di capirci qualcosa.
Il riconoscimento disinnesca la meccanica del “di chi è la colpa”. Sì, perché quando si tratta di un fallimento è molto forte la tentazione di dare la colpa agli altri, al destino avverso o a se stessi. Il secondo alleato? Lo studio, per più ragioni. Nella maggior parte dei casi di fronte a un fallimento, che sia a livello personale o professionale, abbiamo solo voglia di voltare pagina e seppellire quel senso di vergogna che ci scava e smonta da dentro. Invece capire che cosa non ha funzionato rappresenta un passaggio fondamentale per accettare e superare il fallimento di oggi. La comprensione delle cause offre i mattoni per costruire una strada in grado di condurci verso altre direzioni.
Crea il cambiamento
L’insuccesso ci fa sentire in difetto: mancanti, inefficaci. Invece, se vogliamo realmente cambiare le cose abbiamo bisogno di metterci il naso. Essere curiosi porta a nuove scoperte, soprattutto su noi stessi. Esci dal guscio. Il periodo dopo un fallimento costituisce un momento di estrema vulnerabilità, è il momento di prendersi cura di sé; per leccarsi le ferite e non solo. I libri e le persone di valore, incontrati nel momento giusto, sono una medicina e possono contribuire a espandere i nostri orizzonti mentali. Senza contare il potere terapeutico della scrittura.
Hai mai pensato di tenere un diario? Avere un taccuino sempre in borsa aiuta a raccogliere le idee, ma a posteriori diventa anche un modo per rileggersi e osservare se stessi prendendo le giuste distanze dalla propria storia. Sulla carta lasciamo una traccia e siamo costretti a fare una sosta: ascoltar(ci). A fare la differenza è il processo di comprensione delle dinamiche dietro le nostre azioni. Pensiero dopo pensiero aumenta la consapevolezza di che cosa volevamo, di come ci siamo comportati e dove abbiamo finito per arenarci. A patto, però, di essere disposti a osservare se stessi. La chiave? Proprio la capacità di prendere la giusta distanza.
“Molti fallimenti nella vita si segnalano da parte di quegli uomini che non realizzano quanto siano vicini al successo nel momento in cui decidono di arrendersi”
Thomas Edison
Fai come se… tu fossi lo spettatore
Imparare a osservare se stessi non è facile e non è un fatto automatico. Non ci siamo abituati, anche perché raramente viene insegnato. Ci vuole allennamento. Carl Rogers, considerato uno dei padri fondatori del counseling e della psicologia umanista, in una sessione diventata celebre, incontra Gloria, una paziente: era il 1965. Rogers e la donna siedono uno davanti all’altro, lei si racconta e ciò che fa Rogers è applicare un tipo di colloquio in grado di rispecchiare e rimandare ciò che è appena stato detto. Il solo fatto di ripetere le parole e i concetti produce un effetto efficace: ci costringe ad ascoltare noi stessi e sintonizzarci sulle nostre verità, spesso sfuggenti o nascoste a un livello di cui non siamo consapevoli.
Sì, perché spesso, più o meno consapevolmente… ce la raccontiamo! Ti risuona? La maggior parte delle volte non siamo consapevoli di tutto ciò che diciamo. E nemmeno di quello che pensiamo. Anche quando raccontiamo un certo episodio, per esempio a persone diverse, tendiamo a farlo sempre nello stesso modo, utilizzando parole uguali e fissando uno schema narrativo. Il rischio è finire per abbracciare un certo punto di vista e non cambiarlo mai: questo è anche uno dei motivi per cui i ricordi non sono mai veritieri. La memoria e le nostre verità sono frutto di una negoziazione costante, spesso inquinata dalle consapevolezze acquisite a posteriori, che tuttavia prima non esistevano.
Impara a dialogare allo specchio
Uno dei principi del colloquio efficace, messi a punto da Carl Rogers, è la tecnica della riformulazione, che utilizzando lo strumento del dialogo a due permette un chiarimento progressivo della comunicazione. Riformulare significa essere in grado di mettere a punto un ascolto attivo ed empatico, capace di sintonizzarsi in modo autentico su ciò che l’altro sta dicendo. Ripetere le parole e i concetti espressi, riassumento il punto di vista di chi parla, diventa lo strumento per presentare l’altro a se stesso, come in uno specchio. E se l’altro fossi tu? Parte da questo concetto l’autoetnografia, che attraverso lavori come l’autobiografia, si propone di indagare non mondi lontani da sé, bensì il proprio universo, di cui si ha esperienza personale. Charlie Barnao. professore associato di sociologia generale, ha utilizzato i principi di questa ricerca, nata negli anni Settanta, come ispirazione per lavorare insieme ai detenuti del carcere di Catanzaro.
Che cosa ti aiutato a sopravvivere? Questa domanda, che ha portato allo sviluppo di due tesi in sociologia, è diventata un corso di laurea. “Perchè non possiamo resistere senza prima imparare a sopravvivere” spiega Charlie Barnao, di origine palermitana, che per quindici anni ha lavorato come volontario presso la comunità d’accoglienza Villa S.Ignazio a Trento, e oggi insegna Sociologia e Sociologia della Sopravvivenza presso l’Università “Magna Græcia” di Catanzaro. Partire da un fatto autobiografico diventa occasione per costruire un punto di vista “esterno”, per immergersi e penetrare nelle dinamiche della propria cultura di appartenenza. Strumenti per la sviluppare un’attitudine resiliente sono la curiosità e la capacità di non lasciarsi invischiare ma, anzi, nutrire il coraggio necessario per autosvelarsi e mettersi a nudo in un continuo processo di scoperta. Attraverso il rispecchiamento si gioca al rilancio e la narrazione di sé diventa uno specchio capace di proiettare l’immagine di sé e degli eventi.
“La forza si costruisce sui fallimenti, non sui propri successi. Ciò che mi ha resa forte è stato nuotare sempre controcorrente”
Coco Chanel
Il senno di poi non esiste
Quante volte ci giudichiamo in base ai risultati ottenuti? Tuttavia, se prima tu avessi saputo quello che ora sai… non avresti fatto ciò che hai fatto! Questo è ovvio, invece continuiamo a colpevolizzarci per i nostri errori. Prova a cambiare sguardo e vocabolario: non si tratta di uno sbaglio, è il potere dell’esperienza. Nulla accade se non ci proviamo. Chi non fa non sbaglia, recita un detto popolare: chi non sbaglia non osa nemmeno. Davvero credi sia più importante dimostrare di avere ragione? Il motivo per cui ci diverte così tanto ad avere ragione è l’interrogativo con cui si apre il libro di Kathryn Schulz, ”L’arte di sbagliare” (Bompiani). Avere ragione è rassicurante, perché, ci spiega l’autrice le intuizioni felici che abbiamo “ci rassicurano sul fatto di essere in gamba, competenti, affidabili e in sintonia con l’ambiente”. Nella storia l’errore è stato associato a un’indole pigra, all’ignoranza e a comportamenti perversi. Insomma, se abbiamo sbagliato è anche e soprattutto colpa nostra, è un nostro errore di visione. Di qui l’incredibile mole di sensi di colpa e imbarazzo che la disfatta si porta dietro.
Fra i più pericolosi per l’equibrio fisico e psichico il fallimento d’amore. Rispetto al lavoro siamo poco disposti poco a perdonarci gli sbagli del cuore. Azzeccarci, “vedere giusto” aumenta la fiducia su noi stessi e sul mondo. Al contrario, l’errore mette tutto a repentaglio. Soprattutto, fa vacillare “’idea di sapere chi siamo, così come l’idea che siamo chi siamo”, scrive Kathryn Schulz, che aggiunge “Un amore che è eterno non può finire. Invece sì, ed eccoci qui: impantanati in una sofferenza resa ancora più estrema proprio perché impensabile”. Perdiamo il principio organizzativo e il senso che avevamo dato alle cose, ecco perché la disfatta d’amore diventa crollo della propria identità. “Quando prendiamo una cantonata colossale in amore” leggiamo, “siamo influenzati dai pregiudizi, nostri e degli altri, dai giudizi e traiamo convinzioni affrettate che poi siamo riluttanti ad abbandonare”. L’errore ci lascia vulnerabili, abbandonati dalla fiducia che avevamo in noi stessi e quello in cui credevamo, naufraghi come Robinson Crusoe in un’isola chiamata Disperazione.
“Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi alla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di 9.000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. Per 36 volte i miei compagni si sono affidati a me per il tiro decisivo… e l’ho sbagliato. Ho fallito tante e tante e tante volte nella mia vita. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”
Michael Jordan
“Errare” può essere un’avventura bellissima
Di fronte a un’intuizione sbagliata siamo subito pronti a dire, agli altri e soprattutto a noi stessi, “ecco, te l’avevo detto!”. Proprio non ne sappiamo fare a meno di quel te l’avevo detto, che suona terribile e che abbiamo così interiorizzato da ripeterlo in continuazione, anche ai bambini. Consideriamo l’errore un incidente di passaggio, qualcosa che non doveva capitare. È che siamo programmati per trovare la via migliore: a essere in gioco, fisicamente o simbolicamente, è sempre la nostra sopravvivenza.
Proviamo a immaginare il nostro cervello. Da sempre tutto il nostro sistema è impegnato in una lotta continua a proteggerci dai pericoli, tenerci in piedi, farci evitare gli inciampi: un po’ di comprensione, quindi. Evitare inciampi e cadute è per la nostra “sicurezza di sistema”. Ma esiste un’altra verità. Se tu non avessi un certo errore ora non potresti dire com’è. La parola “errore” ci racconta una storia bellissima. Il latino “error” significa “devio”, “vago”. Al bivio della vita prendo una via, esploro. Forse tornerò indietro, forse prenderò un altro bivio, un’altra volta: non lo so, non posso saperlo. Intanto mi concedo di “ex-plorare”, andare, scorrere all’unisono con il flusso vitale che mi porta ad avanzare e andare avanti. Se anche mi capitasse di ritornare indietro non sarebbe lo stesso percorso, perché io non sono quella di prima: sono una persona più ricca e saggia grazie alle esperienze fatte e le strade conosciute.
In fondo questo è l’incredibile miracolo di questo nostro viaggio nell’esistenza: la capacità di meravigliarsi, ancora una volta, crederci e andare a vedere, metterci il naso, e nel nostro stupore andare alla scoperta di nuove vie e orizzonti che non credevamo potessero esistere. Celebriamo i nostri fallimenti, perché passo dopo passo, ci hanno insegnato a cercare, provarci ancora, rialzarci, far crollare muri di illusioni, che è doloroso e ne avremmo fatto volentieri a meno, ma cosa sarebbe la vita se la attraversassimo senza nemmeno rendercene conto?
“Colui che più possiede, è colui che più ha paura di perdere”
Leonardo da Vinci
5 strategie se sei alle prese con un fallimento
Scrivi – Che cosa non ha funzionato? Prova a rivedere il fallimento a posteriori e scrivere la storia di questo capitolo della tua vita. L’autobiografia ci aiuta a fare ordine
Racconta – Parlane e prova a non utlizzare sempre le stesse spiegazioni. C’è un altro modo di vedere l’accaduto? raccontalo di nuovo… Attraverso prospettive diverse
Leggi – Altre storie, altre persone, altri luoghi: gli altri possono essere un’incredibile ispirazione per imparare qualcosa su di noi
Senti – Vergogna? Senso di colpa? Delusione? Sì, e poi che altro? Lascia uscire le tue emozioni, vivile, piangile: l’unico modo per lasciarle andare è attraversarle
Respira – Cambiare idea è correre un rischio, ma se vuoi andare in direzioni inesplorate… non ti resta che camminare su strade che non hai ancora sperimentato