Perdere il lavoro
«Per 20 anni sono stata una lavoratrice dipendente all’interno dello stesso studio, dall’esame di Stato a quando mio figlio ha iniziato le medie» ricorda Laura, architetta e madre separata. «Una routine tutto sommato serena». Poi quell’equilibrio si è spezzato: lo studio ha chiuso. «Mi sono sentita una zattera in mezzo al mare. Troppo “grande” per farmi assumere in un altro studio, ho avviato un’attività da libera professionista. Bussavo a tutte le porte, gli incarichi arrivavano col contagocce, i compensi erano miserabili. Più il gruzzolo della liquidazione si assottigliava, più mi sentivo insicura, inadeguata. Persino i progetti semplici mi sembravano montagne, li consegnavo e la notte non dormivo, tormentata dall’idea di restare senza lavoro. Accettavo ogni proposta, senza pause, né weekend. Ci sono voluti un esaurimento e un paio d’anni di psicoterapia per tornare coi piedi per terra. Come per tante Partite Iva, le mie condizioni economiche non sono migliorate, ma ho imparato a rallentare, a scegliere di fare ciò che mi piace. In fondo, il lavoro l’ho già perso una volta e sono ancora qui. Ho imparato a galleggiare e se la zattera si ribalta di nuovo, be’, m’inventerò qualcosa». (Laura, 52 anni)
Paure da superare: restare da sole
Fino a 58 anni, Francesca non è mai stata single, neanche un mese della sua vita. Fin da quando ha raggiunto l’età per immaginarsi in una relazione, ha avuto accanto un uomo. «Pressioni sociali, insicurezze, non so quale ancestrale condizionamento mi avevano convinto che l’assenza di un legame fosse un fallimento, ti rendesse incompleta. Non era questione di solitudine o di sesso, non mi bastavano le avventure di una notte, ogni legame doveva avere i crismi sociali della stabilità: un fidanzamento, una relazione ufficiale, un matrimonio. Crescendo, sviluppavo il mio senso critico, ma non trovavo il coraggio di sviscerare quell’ossessione. Quando un rapporto iniziava a sfaldarsi, mi mettevo in cerca di un “sostituto” che mi traghettasse verso una nuova storia. Ero bella, vivace, sensuale, ciò rendeva tutto più facile. Poi mi sono sposata, un matrimonio di 20 anni, stabile, felice, che mi ha dato 2 figli. A 50 mi sono innamorata di un altro, ho divorziato ed è ricominciata la giostra, che mi ha precipitato sempre più in basso, insieme a persone che mi svilivano, alienandomi i miei stessi figli. Ci ho messo tanto a prendere coscienza, a guardare dentro a quella pulsione. Ho dovuto ricostruirmi, imparare a riconoscermi a prescindere dagli altri, ad amarmi un po’. Ora vivo sola. Dire che sto bene e mi basto sarebbe un’iperbole. Ma, se qualcosa mi manca, non è certo un uomo». (Francesca, 58 anni)
La paura dei cani
A 4 anni Linda correva sul marciapiede per raggiungere il portone di casa. Non poteva immaginare che anche Otto, pastore tedesco possente nelle fattezze quanto mite di temperamento, caracollava con la stessa baldanza in direzione ostinata e contraria. L’impatto fu violento, cane e bambina, ruzzolarono sul marciapiede. Non è chiaro chi si spaventò di più, ma da allora Linda ha sviluppato il timore sacrosanto per ogni varietà di canide, dal molosso al chihuahua. «Paura che mi ha costretto anche a scartare un potenziale fidanzato, fiero proprietario di un San Bernardo» ricorda scherzando. «A farmela superare è stata la passione per il canto, che mi ha convinto a trasferirmi da Firenze a Milano per studiare da soprano. L’urgenza di pagarmi l’affitto da fuorisede mi ha spinto ad accettare un lavoro facile e ben pagato, un’offerta che non potevo rifiutare: assistente in un centro “puppies yoga”. Che cos’è? Corsi di yoga in compagnia di cuccioli di bassotto, barboncino, Golden retriever: secondo chi li tiene, la loro presenza aiuta a rilassarsi, allenta stress e tensioni. Con me ha funzionato». (Linda, 20 anni)
Paura di essere un cattivo padre
«Persino il mio debutto da papà è stato un flop» dichiara tra ironia e pudore Marco, padre 30enne del piccolo Jacopo. «Sono svenuto in sala parto». Un figlio Marco lo voleva davvero, «ma, quando è arrivato, improvvisamente non mi sentivo pronto. Avevo paura che mi cadesse mentre lo tenevo in braccio, che soffocasse nel sonno, che mangiasse troppo o non abbastanza. Quando compì 6 mesi, la mia compagna decise che eravamo pronti per portarlo con lo zaino porta-bebè nelle nostre passeggiate in montagna: finì col tenerselo sulle spalle da sola, tanto l’idea di scivolare o inciampare col bambino mi agghiacciava». Poi accadde il primo incidente. «Lei era scesa a fare la spesa, la pappa era pronta, dovevo solo scaldarla. Jacopo, affamato, si agitava e piangeva come un ossesso, il seggiolone si ribaltò di lato, addosso al gatto, che fortunatamente attutì il colpo». Il bambino non si fece niente, il gatto nemmeno, la madre liquidò l’episodio con un sospiro e una risata, ma da quel giorno Marco si rifiutò di stare da solo col bambino. Ci volle un altro “incidente” per sbloccarlo. «La vigilia del suo secondo compleanno, Jacopo si ammalò e la febbre provocò un episodio convulsivo. La mia compagna andò nel panico. Non so dove trovai la freddezza di chiamare il 118 e spiegare al personale in ascolto cosa stava accadendo: seguii le loro indicazioni in diretta. Mi spiegarono come abbassare la temperatura al bambino, spalancando le finestre, applicandogli spugnature gelate, nel frattempo arrivava l’ambulanza che si prese cura di Jacopo. Fu quello il giorno in cui venni al mondo come padre». (Marco, 30 anni)
Tra le paure da superare c’è quella di fallire
Giovanni è un noto dj della scena milanese. Nelle sue serate s’accalcano fino a notte fonda migliaia di ragazzi dai 20 ai 30 anni. Il suo nome figura nella line up di festival ed eventi internazionali, vive del suo lavoro senza farsi mancare nulla. Non è sempre stato così. Il suo esordio, in un club davanti a 600 persone, fu disastroso: «Il mio dj set seguiva quello di un veterano che aveva riscaldato l’ambiente. Nei miei primi 10 minuti alla consolle, la pista si svuotò, la gente usciva a fumare o a bere. Sudavo freddo, avrei voluto correre a nascondermi mentre i pochi rimasti si avvicinavano per chiedermi brani a piacere: l’epic fail di ogni dj che si rispetti. Ci misi anni a riprendermi da quella débâcle: declinavo ogni proposta, ogni volta che vedevo un dj set, anche in video, il malessere cresceva e la mia autostima collassava. È stata un’intervista a Claudio Coccoluto, grande dj recentemente scomparso, a cambiare il mio sguardo: un club, spiegava, non è come un concerto rock, l’energia non fluisce in maniera unidirezionale dal palco al pubblico. È un party in cui la carica del dj è circolare: è il primo che deve divertirsi perché tutto funzioni e per farlo ha bisogno dell’energia anche dell’ultimo partecipante. Questa verità, così lampante nella sua semplicità, ha riacceso la passione che mi aveva portato alla consolle: mi sono rimesso in pista, con umiltà, con molta prudenza, ho imparato a cercare quella connessione, ma prima di tutto a divertirmi». (Giovanni, 28 anni)