“Se l’è andata a cercare”, quante volte abbiamo sentito questa infelice espressione? Dentro queste parole si cela un mondo intero: un universo fatto di convinzioni, pensieri, giudizi che talvolta suonano come considerazioni di circostanza ma in cui si macera un conflitto vecchio di secoli. La parola “slut-shaming” è un neologismo che unisce il termine inglese “slut”, sgualdrina, a ”shaming”, letteralmente far vergognare. È la gogna pubblica a cui sono condannate le persone, soprattutto quando si tratta di donne che vogliono affermare il proprio diritto alla libertà e alla scelta. Scegliere come mi voglio vestire o truccare, scegliere di poter studiare o camminare per strada: sembrano gesti semplici, ovvi. Invece nel XXI secolo ancora non è scontato decidere liberamente per sé senza diventare oggetto di giudizio a causa di come ci vedono gli altri.
Giudicare, un’abitudine
In psicologia viene chiamato bias attributivo di base: riguarda il nostro comportamento mentale ed è la tendenza a trasformare i nostri giudizi in realtà. È una distorsione, attenzione, eppure lo facciamo continuamente. Farsi un’idea è utile nella vita di ogni giorno e serve per prendere decisioni velocemente, tuttavia i giudizi sommari non solo possono portare a clamorosi errori, bensì condurre a pregiudizi nella valutazione di situazioni e persone al punto da travisare e deformare la verità dei fatti, che si sa, è un gioco di prospettive.
Alcune ricerche hanno dimostrato che il ricordo delle scelte che abbiamo preso in passato è migliore rispetto alle scelte che NON abbiamo fatto, ovvero le possibilità scartate (Mother, Shafir, Johnson, 2000). Questo è solo un esempio. Un altro riguarda il classico “Te l’avevo detto!”: è l’hindsight bias, ovvero l’impressione (ma solo in uno sguardo retrospettivo!) di aver predetto con sicurezza un certo evento. Il fenome dell’availability cascade invece ci racconta quanto una notizia possa plasmare la nostra opinione: più una certa convinzione viene ripetuta pubblicamente, più l’effetto a cascata tenderà ad alimentare fiducia e plausibilità in quella che, non dimentichiamolo, rimane una prospettiva, un’opinione.
Il pregiudizio è una mappa mentale distorta e per essere sradicato ha bisogno di attenzione perché si tratta di penetrare nella nostra mente e portare allo scoperto il legame che ha portato ad abbarbicarsi a una certa idea. Del resto, la parola “opinione” nasce nel mondo della Grecia antica, dove identificava la conoscenza basata sull’opinione soggettiva. Siamo disposti a vedere al di là della nostra opinione? Per farlo abbiamo bisogno di allenarci nella difficile operazione di “discriminazione”, una parola che solitamente evoca contesti di diseguaglianza e invece possiede la forza dirompente della capacità di scelta, l’atto di separare la buccia dal seme, la forma dal contenuto, i fatti e l’opinione, con l’umiltà che serve per dare uno scossone ai propri punti di vista e, se necessario, riedificarsi fino alle fondamenta.
Slut shaming, che cos’è?
Nel 2011 nel campus universitario di Toronto avviene uno stupro: al processo, un agente di sicurezza fa notare l’abbigliamento della vittima. Giudicare una persona a causa della sua apparenza, ecco il senso del termine slut-shaming”. Lo stereotipo dietro a una visione della donna rigida e ancorata ai pregiudizi, si nasconde prima di tutto fra gli strati dei vestiti, la nostra prima carta d’identità al mondo.
La convinzione che il modo di vestirsi di una persona possa essere associata a una sua responsabilità in un’aggressione è un pregiudizio, è bene non dimenticarlo mai. Se è vero che ci sono abiti, stili o colori che mi possono rendere più o meno visibile o invisibile, è altrettanto vero che questi non sono e non dovrebbero essere considerati un fattore di colpa. Quanto accaduto a Toronto mobilita l’opinione pubblica: viene organizzata una marcia di protesta, a cui seguiranno altre “slutwalk” in diverse città, fra cui Roma nel 2013.
La sgualdrina, la poco di buono non è semplicemente una persona con una condotta sessuale che devia rispetto alle regole imposte: si tratta di un’idea che per secoli ha prosperato nella mente delle persone, utilizzata come stigma sociale. Dentro ci troviamo il senso di vergogna e l’autoritarismo di chi vuole azzittire e soggiogare, far sentire colpevole o inferiore a causa di un comportamento che si discosta dalll’aspettativa. Spesso non si tratta nemmeno di un comportamento manifesto, ma solo di un’ombra capace di far affiorare lo spettro di un’altra realtà possibile. Il fenomeno slut shaming (purtroppo!) appare in aumento anche nell’universo del web, dove, in particolare sui canali social, il confine fra libertà di espressione e attacco agli altri diventa estremamente labile.
Il parere dell’esperta
Una questione fondamentale del fenomeno slut shaming riguarda il pregiudizio. Sradicare quelli che in psicologia vengono chiamati bias è estremamente difficile e, soprattutto, diventa possibile solo quando iniziamo ad allenarci, osservando i nostri pensieri e le nostre azioni attraverso il filtro di uno sguardo differente. Questo significa fare un costante esercizio di consapevolezza sulla propria vita. Siamo disposti a iniziare un lavoro di decostruzione? “Si parla di errori di giudizio, errori che fa la nostra mente, spesso in automatico. In Italia non se ne sente parlare molto di slut shaming proprio perché la cultura maschilista è ben radicata e spesso, senza neanche rendercene conto, tendiamo a giudicare chi non rientra nei canoni di quella che è vista ancora come normalità” spiega la Dott.ssa Pamela Busonero, Psicologa e Psicoterapeuta a Firenze: “Lavoro tantissimo con donne che subiscono violenza psicologica, e frasi di questo tipo ne sento tutti i giorni. Non vengono solamente da partner violenti e abusanti psicologicamente. Spesso vengono da altre donne, da giovanissimi e addirittura da genitori. Mamme che criticano le proprie figlie per un abbigliamento non consono alle proprie aspettative. Donne che, durante i primi colloqui, mi dicono di non capire quando si meritano di essere trattate in una certa maniera e quando, invece, è troppo. Esempi così ne avrei tantissimi. La verità è che ognuno è libero di esprimersi come meglio crede e questo non legittima gli altri a manifestare giudizi, di nessun tipo”.
Il senso di colpa e di inferiorità è l’altra grande questione, che entra in gioco quando si parla di costruzione dell’autostima. Il problema, infatti, è l’interiorizzazione della colpa, ovvero il gioco sleale del pensiero “me la sono andata a cercare?”. Se l’interiorizzazione è a livello sociale, allora tanto più pericolosa appare questa deriva. Significa che educare generazioni diverse ha bisogno innanzitutto di una consapevolezza nuova verso noi stesse. Abbiamo bisogno di imparare a vedere il nostro valore, ritrovare il contatto con il corpo, riscoprire il modo in cui ci raccontiamo il mondo e noi stessi, già a partire dalla fisicità.
“Quando donne subiscono slut shaming arriva loro senso di colpa, ma non solo. Si sentono sbagliate, umiliate, sentono di perdere il proprio valore e la propria importanza come esseri umani. La cosa peggiore è che spesso credono a chi le giudica, perché percepiscono le offese come normalità e non come abuso” chiarisce la Dott.ssa Busonero, che aggiunge: “Questo fenomeno avviene anche quando una donna è costretta ad interrompere una gravidanza, quando è vittima di stupro o aggressione sessuale e quando subisce revenge porn. Ultimamente ho avuto un caso di revenge porn. Lei non solo non ha denunciato, ma non è riuscita neanche a parlarne per il senso di vergogna provato, come se effettivamente fosse lei quella sbagliata. Oppure altre donne che, provando a difendersi, si sentono dire ‘se te la prendi così hai la coda di paglia’ o ‘non sai stare allo scherzo’. C’è bisogno di un cambio radicale di pensiero: nonostante la società si stia emancipando, è molto difficile da sradicare. È bene parlarne il più possibile, fare educazione sessuale nelle scuole ai ragazzi e anche ai genitori. Se questi pregiudizi cominciano a cambiare all’interno delle famiglie sarà più facile che i bambini crescano con una visione della donna (e di sé stessa, nel caso delle bambine) diversa”.
Cambiare parole per cambiare il mondo
Il primo passo per cambiare le cose è iniziare a riconoscere ciò che viviamo… e diciamo. Sì, perché come diciamo le cose fa differenza. Cambiare il linguaggio significa combattere contro il reiterarsi di stereotipi anche nella comunicazione. Tu come ti esprimi quando racconti di te, degli altri o un certo evento? Lo psicologo statunitense Marshall Rosenberg quando nel 1960 conia il termine comunicazione nonviolenta pensa a un nuovo di comunicazione. Usa la giraffa come simbolo: con il suo lungo collo desidera farsi portatrice di un modo di esprimersi e ascoltare differente, in grado di arrivare lontano e avere una prospettiva più ampia, capace di considerare le parole che diciamo e le loro conseguenze. Una comunicazione più sensibile, empatica e attenta.
Quali sono i tre principi di una comunicazione nonviolenta?
Auto-empatia: comunicare con noi stessi ascoltando i nostri reali bisogni
Empatia: ascolto dell’altro senza giudizio
Auto-espressione onesta: esprimere il proprio sentire con autenticità
Quanto è difficile tutto questo! Essere realmente presenti, prima di tutto a noi stessi; sentire i bisogni autentici, osservare e ascoltare senza giudicare. Dietro le parole c’è un mondo intero. Se osassimo calarci dentro i pensieri che formuliamo e portare un cambiamento in questa materia oscura, a trasformarsi forse sarebbe tutta la nostra vita. Le parole sono espressione di come stiamo dentro. Come si sente l’altro mentre dico questo? E io, come mi sento? Le parole hanno il potere di far sentire gli altri e noi stessi in un certo modo, possono sollevare o trasformarsi in coltelli. Pensiamoci la prossima volta che avremo sulla punta della lingua “È colpa tua”. Fermiamoci in tempo.