Le Crying rooms non sono una novità, almeno nel mondo orientale e in particolare giapponese, dove sono nate. Arrivate negli Usa, ora si stanno diffondendo anche in Europa. Sono spazi nei quali gli adulti possono piangere, sfogando sentimenti come frustrazione, tristezza o rabbia. Come dice il nome stesso, infatti, permettono di piangere, lontano da occhi indiscreti, da commenti o giudizi altrui, in quello che fino a qualche tempo fa era considerato un comportamento “infantile”. Da soli, invece, è possibile lasciar sgorgare le lacrime senza imbarazzi. Quanto possono essere utili?
Cosa sono le crying rooms
Le prime crying rooms hanno aperto i battenti a Tokyo, in Giappone. Nonostante il nome, non si presentano come luoghi angusti o tristi, ma si trovano in numerosi hotel di lusso, a cinque stelle, come il Mitsui Garden Yotsuya della capitale. Anche il prezzo non è modico (75 euro), specie se si pensa che è costo per l’accesso a una stanza dove semplicemente dar libero sfogo al pianto. Nel “servizio”, però, è compreso anche un tè servito direttamente nella camera, insieme a un pacchetto di fazzoletti, un film con cui lasciarsi andare e una maschera viso per poter uscire dalla stanza senza traccia sul volto delle lacrime versate.
Il boom negli Usa e poi in Europa delle crying rooms
È immaginabile che le “stanze del pianto” prima o poi prendessero piede anche negli Usa e così è stato. Di recente, però, sono comparse anche in Australia, dove il performer e artista Marcus Ian McKenzie ha raccontato la scoperta di questi spazi, sorti spesso in ex cinema o chiese, adattati in modo da essere insonorizzati e permettere, quindi, di poter piangere “senza disturbare gli altri”. Di recente, però, le crying rooms sono apparse anche in Europa: a Madrid, in Spagna, per esempio, ha aperto la Llorerìa (cioè il luogo in cui “llorar”, “piangere”). Lo stesso è accaduto in diverse università inglesi: come spiega il Daily Mail, gli avventori sono soprattutto 30enni, definiti “adultescenti” o “kidults”, insomma adulti ancora un po’ adolescenti o “bambini cresciuti”, non del tutto.
Quanto servono le stanze del pianto?
«Certamente può essere utile un luogo anche fisico dove poter esprimere le proprie emozioni negative: tristezza, dolore, rabbia, disperazione, da soli o come spazio condiviso con altri. Nei nostri contesti sociali, infatti, si sono persi o estremamente ridotti i luoghi e i momenti in cui esprimere il dolore, ad esempio per la perdita: la morte è virtualizzata o di fatto non accolta e negata», spiega Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana. «Per migliaia di anni fino agli anni ’70 c’erano c’erano le prefiche o lamentatrici che, dietro compenso dei familiari, piangevano e parlavano in nome dei parenti intimi, rievocando gli episodi più commoventi della vita del defunto, intonando anche canti funebri in coro», ricorda Lucattini, spiegando: «Il dolore ha bisogno di luoghi e persone dove essere accolto ed espresso».
Piangere è “da donne”
L’esigenza di creare uno spazio apposito nasce dal timore del giudizio altrui nel mostrare una debolezza: il pianto, in fondo, è da sempre associato all’infanzia, al “comportarsi da bambini”, come dimostrano le parole del Daily Mail. «Nonostante i cambiamenti e una maggiore educazione all’espressione delle emozioni e all’affettività, alcuni retaggi culturali sono difficili da eradicare. Il pianto è sempre riferito a dei bisogni primari, perché nei bambini piccoli è un richiamo per i genitori quando hanno fame e bisogno di cure, attenzioni e affetto – osserva l’esperta – Nonostante oggi esprimere i sentimenti non sia più considerato una “vergogna”, il pianto è ancora stigmatizzato, in particolare per gli uomini, poiché indicato come segno di mancanza di controllo nel gestire le emozioni, quindi di debolezza e vulnerabilità. Questi pregiudizi confermano l’idea che piangere sia qualcosa di infantile o prettamente femminile».
Nelle crying rooms piangono anche i vip
Di recente, però, qualcosa è cambiato: hanno fatto il giro del mondo, per esempio, le lacrime dell’ex presidente statunitense Barack Obama, sia in occasione della sparatoria in una scuola a Newtown nel 2016, sia quando venne rieletto. In qualche modo la sua commozione ha sdoganato un comportamento che prima era ritenuto “inadatto” ai personaggi famosi, men che meno ai politici. È accaduto al premier canadese Justin Trudeaux, all’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, a Bill e Hillary Clinton, e in Italia all’ex Ministro Elsa Fornero (era il 2011), a Silvio Berlusconi (nel 1997 davanti a una strage di migranti) e, tra gli altri, anche al capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ma in quasi tutti i casi si parla di “commozione”, appunto, e non di pianto.
Pianto e commozione: due concetti diversi
«La commozione è legata a sentimenti positivi, ad interesse, partecipazione, pathos, empatia per situazione che sta vivendo. Si esprime anche con il pianto, che non viene nascosto ma mitigato, continuare il discorso – chiarisce la psicanalista – Il pianto, invece, è espressione di una sofferenza interiore, di un dolore fisico o mentale, legato a perdite, rotture sentimentali, delusioni, umiliazioni, oppure rabbia e collera». «In un contesto pubblico in cui è richiesto o atteso self control, anche la commozione può essere mal vista e giudicata negativamente, perché le emozioni più intime o forti oggi sono relegate all’ambiente familiare, e alle relazioni più strette, di coppia, tra genitori e figli o amici molto molto stretti. Il pianto, invece, è considerato solo un evento privato, qualunque sia la ragione».
Il potere “benefico” del pianto
Eppure il pianto può far bene: «L’American Psychological Association afferma che le donne piangono in media da 30 a 64 volte all’anno, gli uomini da 5 a 17. Ma tutte le ricerche concordano sul fatto che il pianto sia un’esperienza esclusivamente umana, è la manifestazione di una tensione non più contenibile dalla mente e che necessita di essere esternata – spiega Lucattini – Ma è anche una comunicazione, sia interna che con interlocutori esterni. Risponde a un bisogno per cui non può che essere soddisfatto. Inoltre può ridurre lo stress, creare un legame più stretto con gli altri e ridurre il dolore fisico».
I limiti del pianto “solitario”
Ciononostante, non è detto che piangere in una crying room possa avere gli stessi benefici: «Un conto è piangere in un contesto sicuro, il partner o gli amici intimi, altra cosa è piangere chiudendosi in una stanza, da soli, al lavoro o a casa, dopo una riunione tesa o un litigio acceso – osserva Lucattini – In questo secondo caso, non c’è consolazione e può anche aumentare l’angoscia e il senso di solitudine». Il motivo è legato al processo di elaborazione del dolore: «Nessuno può farlo da solo. Piangere in queste situazioni è una necessità, un bisogno, che certamente può essere vissuta in alcuni momenti in solitudine, come scelta. In generale, la condivisione con persone fidate è però consigliata e aiuta molto».
Il rischio della speculazione commerciale con le crying rooms
Se lo scopo delle “stanze del pianto” è dunque di rimuovere lo stigma sociale, come accaduto in Spagna, occorre prestare attenzione al rischio di una speculazione commerciale. «Il progetto pilota spagnolo della Crying Room a Madrid, con la “Lloreria” inaugurata nel 2021 dal primo ministro Pedro Sanchez, mira proprio sensibilizzare e rimuovere lo stigma sociale sulla sofferenza mentale, sul bisogno di piangere e sulla ricerca di aiuto nei momenti di difficoltà psicologica. Sarebbe importante non ridurla ad un’operazione commerciale ma utilizzarla come strumento terapeutico per rispondere a bisogni individuali socialmente condivisi», commenta la psicanalista.
Le alternative al pianto
Il pianto, però, non è l’unico modo per «elaborare e indirizzare le emozioni: la scelta è personale, ma dipende anche dal tipo di emozione. Sono consigliabili e possono essere utili attività artistiche, sportive e anche una consultazione psicoterapeutica e psicoanalitica. Anche la scrittura è utile, tenendo un diario o scrivendo in prosa o poesia, perché aiuta a dare forma alle emozioni, grazie alla riflessione nel passaggio dal pensiero alla parola scritta», consiglia Lucattini, che suggerisce anche di ascoltare musica, suonare, cantare in un gruppo o in coro, oppure comporre, disegnare, dipingere, ecc., «perché aiutano a trasformare il disagio in opere tangibili e belle, specie se condivise. C’è ancora pregiudizio, invece, sul rivolgersi a un professionista per parlare (o piangere), quando talvolta alcune difficoltà si risolvono anche in un solo incontro».