Downshifting: cos’è
Scalare la marcia, o per dirla con una parola inglese “downshifting“. Si tratta di una vera e propria filosofia: è la rivoluzione della decrescita felice, un pensiero economico e politico sostenuto da decine di filosofi ed economisti che diventa movimento per il cambiamento, in senso personale e sociale. Ma ancora prima che esistesse il downshifter, questa idea faceva già breccia.
Dietro al downshifting si nasconde la rivoluzionaria bellezza della vita semplice, uno stile esistenziale che per un maestro come Gandhi si è trasformata in un motore di cambiamento sociale più potente delle armi. Antichissima, l’idea di ritrovare la semplicità era già un tema di discussione per gli scrittori e i filosofi nell’antica Roma: oggi più che mai, nell’inesorabile garbuglio che ci complica la vita ogni giorno, ci struggiamo e sogniamo. Un altro modo di vivere è possibile? Intanto si moltiplicano le occasioni di riflessione su questi fenomeni che in fondo parlano di bisogni fondamentali, spesso nascosti anche a noi stessi. Ogni anno l’ultima settimana del mese di aprile si celebra la Downshifting Week, mentre il 2 maggio ritorna la Giornata della Lentezza.
Per rendere più bella una casa non basta acquistare un vaso costoso e collocarlo su una mensola: esso apporterà bellezza solo se risponde con sincerità ai bisogni della tua esistenza. Edward Carpenter
Il valore dell’esistenza
Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che non possiamo prevedere quando (e quanto!) la nostra vita può cambiare. Accade in un istante. Lo sa bene chi ha vissuto un grande evento, come un incidente o qualcosa destinato a trasformare nel giro di un istante l’esistenza di tutti. Uno dei più grandi traumi delle persone che hanno vissuto lo tsunami del 2004, che causò oltre 230mila vittime, è questa sensazione di irreparabilità: il cambiamento segna un prima e un dopo. In quel caso una tempesta provocò la distruzione di strade e costruzioni in un arco di tempo brevissimo. Nel giro di pochi secondi la vita così come la si era conosciuta smise semplicemente di esistere. I superstiti del Grande Tsunami in Sri Lanka raccontavano con rammarico dei tanti bambini scomparsi: era mattina presto, nei giorni delle vacanze di Natale e molti erano già in spiaggia, a giocare. A distanza di anni, tante costruzioni deserte, dolorosamente vuote, sono rimaste abbandonate: troppa la paura di tornare ad abitare così vicino al mare. Nell’arco di qualche secondo chi si trovava in una stanza o in un’altra di casa è sopravvissuto, o morto: la vita non è stata più la stessa.
In maniera diversa rispetto a uno tsunami, anche la pandemia ha trasformato le nostre esistenze. La lotta con un virus invisibile ci ha messo di fronte a qualcosa di grande, la più umana delle paure: la paura della malattia, la paura della morte. Non solo, accanto a questa ci sono le conseguenze del lockdown sul forzato stop della vita sociale ed economica. Quello che avevamo sempre dato per scontato, come la possibilità di spostarci da un posto all’altro in tempi sempre più brevi, ad un tratto non è più stato così ovvio. La generazione che ha vissuto gli anni Ottanta da trenta-quarantenne si è illusa sulla parentesi di dorato benessere che oggi sappiamo essere stato solo una bolla destinata a esplodere rapidamente. Ma alla crisi finanziaria e lavorativa del Duemila, che credevamo nera, doveva subentrarne una ancora peggio e non lo sapevamo.
“Voi occidentali, avete l’ora ma non avete mai il tempo” Mahatma Gandhi
Quando la vita rallenta
Dal Duemila grazie a mezzi come i treni alta velocità e l’incremento dei voli low cost si è verificato un cambiamento epocale. Gradualmente abbiamo iniziato a viaggiare di più. Spostarsi, per trovare nuove occasioni di studio e di lavoro, è diventata una possibilità a portata di mano, una tentazione reale e fattibile, tanto da pensare, perfino, di poter abitare in una città e lavorare in un’altra, a distanza anche di molti chilometri. Pendolari di lusso, cavalcando le onde dell’alta velocità e dei voli a basso prezzo: vita privata e lavorativa sono state, per un attimo, cucite insieme da un filo che sembrava resistente. E destinato a durare.
Invece, è bastato uno stop di qualche settimana per mettere allo scoperto tutta l’impraticabilità delle nostre vite. A differenza di qualche anno fa si lavora sempre meno per risparmiare. Il ricavato delle nostre ore lavorative va per pagare affitto, mutuo, spese, rate, carburante: ben poco avanza dallo stipendio. Tutto il guadagno si disperde, invisibile, nel tentativo stressante di continuare a sostentare la vita che facciamo e, al massimo, riuscire dopo una vita intera ad acquistare la casa in cui viviamo, spesso fuori dalle grandi città a causa dei costi proibitivi. Nel frattempo, come utilizziamo il nostro tempo? Almeno otto ore, se non di più, al lavoro; e poi il tragitto e i tempi che occupiamo negli spostamenti. I bambini vivono la maggior parte della giornata a scuola, fin da piccolissimi, e il nido ormai è diventato una necessità.
Il coraggio di ascoltare la propria voce
“Al lavoro, nelle feste, nei momenti di ricreazione. Si cantava sul tram mentre si andava in ufficio (me lo raccontava sempre mia suocera), si ascoltavano i muratori, i contadini, gli artigiani cantare mentre lavoravano” Domitilla Melloni
Quand’è che abbiamo smesso di cantare? “Si cantava tra amici e in famiglia e persino tra estranei nelle feste di paese, nei ritrovi. Si cantava in montagna e in trattoria dopo cena” scrive Domitilla Melloni nel suo libro “La musica dell’anima. Voce, canto, meditazione” (Enrico Damiani Editore): “Quel canto continuo, diffuso, aveva un’importanza fondamentale nel sostenere la vita di tutti“. Oggi, invece, è raro ricordare qualcosa di più di qualche strofa di una canzone celebre e, in più, siamo un po’ tutti convinti di essere stonati, per cui ci azzittiamo ancora prima che lo faccia qualcuno. E non solo nel canto.
Viviamo l’epoca dei social in cui tutti possono essere sul web e far ascoltare ciò che hanno da dire, mostrare i propri interessi, raccontare progetti e sogni. Eppure, ci mancano le parole. Mai come ora, la voce rimane strozzata. Il fatto è che non ci hanno insegnato ad ascoltarci invece l’unico rimedio, prima ancora di farci sentire dagli altri, è fermarci ad ascoltare la nostra voce. Un atto di incredibile coraggio, un’azione di speranza capace di rimettere pace. Forse il Covid in questo senso un cambiamento ci ha costretto a sperimentarlo: ci ha fatto ritrovare il silenzio. Nel silenzio ritrovato del non-fare, nella quiete della geografia lenta, senza traffico, il nostro respiro è diventato assordante, abbiamo avuto bisogno di farlo uscire, urlarlo. Forse è da questo che possiamo ripartire.
La riconquista del tempo
La pandemia ha svelato che interrompere il lavoro che facciamo per un mese o due è sufficiente per vedere implodere tutta la normalità che ci sembrava ovvia: non ce lo possiamo permettere. Le bollette non pagate si accumulano, l’affitto rimane in sospeso ma solo per un po’, senza contare l’insostenibilità di un lavoro che non riesce (ancora, purtroppo) a tener conto delle necessità di una famiglia.
Eppure, se c’è una cosa che abbiamo imparato, nella forzosa inattività della pandemia, è quanto può essere bello stare insieme e avere tempo per… avere tempo. Nell’era del Covid il tempo all’improvviso è diventato materia sovrabbondante: una ricchezza che non sappiamo più gestire. Sì, perché nel frattempo abbiamo fatto anche altre scoperte. Per esempio, abbiamo scoperto di avere case molto piccole, scelte pensando soprattutto di tornare a dormire di sera e non per passarci troppe ore della giornata. In più, ci siamo resi conto che non abbiamo più passioni, una scoperta amara: per tantissimo, oberati dal lavoro e dalle necessità della vita quotidiana, abbiamo smesso di chiederci che cosa amiamo fare.
Elogio all’ozio, perché chiedere troppo a se stessi fa male
Ikigai, trovare “ciò che vale la pena”
Sarà forse dai tempi della scuola che non coltiviamo un hobby, invece la pandemia e la sua abbondanza di tempo ci ha riproposto queste domande. Era da anni che dicevamo di volere più tempo. Ma di cosa te ne fai del tempo se non sai come occuparlo? Adesso stiamo lentamente tornando alla normalità, tuttavia dovremmo tenere questo interrogativo sul cuore. Se lo facciamo sarà un modo per introdurre un cambiamento positivo nei nostri giorni e, alla lunga, preparare una vecchiaia più felice.
In Giappone, che insieme alla Sardegna vanta un numero straordinario di centenari, esiste una parola ormai celebre per definire un’attività capace di farci sentire ancora vivi: ikigai. Si tratta delle nostre passioni, non “hobby” nel senso di superfluo come tendiamo a classificarlo, bensì tutto ciò che vale la pena e scuote la nostra curiosità, meraviglia: tutto quello che ancora ci fa crescere ed evolvere, al di là dell’età.
La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non opporre loro resistenza: questo crea solo dispiacere. Lascia che la realtà sia realtà. Lascia che le cose fluiscano naturalmente in avanti in qualsiasi modo loro piaccia. Lao Tzu
Dove inizia il cambiamento?
Siamo pieni di storie di chi ce l’ha fatta e ha trovato uno stile di vita alternativo, magari rendendo possibile un’idea impossibile. Ma la verità è che non è così semplice: per diventare progetto un desiderio ha bisogno di essere calato nella realtà. Ci vuole abnegazione, disciplina, coraggio e persino un pizzico di pazzia per cambiare vita. Abbiamo il sogno di un chiosco su una spiaggia, o vivere perennemente in viaggio, magari su un camper, o magari trasferirci finalmente in mezzo alla natura in una fattoria, con l’aria buona e le passeggiate. Ma in realtà non abbiamo idea di come sarebbe. Questa resta un’idea ricorrente su cui amiamo indulgere, spesso vaga. La verità è che non tutti siamo fatti per mollare la nostra vita e andarcene altrove. Quando diciamo di volerlo fare non siamo completamente sinceri, o forse semplicemente non ne siamo completamente consapevoli.
Qualsiasi realtà ha dei limiti già per il solo fatto di esistere e quindi essere in un certo modo piuttosto che un altro. Qualsiasi scelta ha delle conseguenze, è questo che impariamo diventando adulti. Se tornare a contatto con la terra o avere un chioschetto su una spiaggia dall’altra parte del mondo significa iniziare a vivere con meno, trasformare il poco in essenziale, allora si scopre che forse “non è tutto oro quel che luccica”. Sì, cambiare non è per tutti. L’essenziale ci affascina, ma uno stile di vita più semplice ci fa paura: paura di non avere abbastanza.
La rivoluzione del quotidiano
“Tipica di quest’epoca è la mania dell’accumulo: il denaro diventa fine a se stesso… una casa dopo l’altra; compra libri, vestiti, cibi, bevande, intrattenimento, e ogni volta si illude che ne uscirà più appagato“. A ricordarcelo è lo scrittore Edward Carpenter. Amico del poeta indiano Rabindranath Tagore e di Walt Whitman, rimangono le lettere che si scambiarono lui, Gandhi e Jack London: pensieri su una società più libera e giusta, uno stile di vita differente. A più di secolo di distanza le parole raccolte nel volume “Edward Carpenter. Per una vita più semplice” a cura di Mauro Maraschi (Piano B Edizioni) riportano una sensibilità così incredibilmente vicina alla nostra.
Fin da piccolo, scriveva Carpenter alla fine dell’Ottocento, il bambino viene cresciuto nel “timore del denaro: tutte le conversazioni che ascolta, così come la sua prima istruzione, vertono sempre sugli orribili pericoli che possono derivare dal non averne abbastanza”. E così si cresce, studiando e cercando un lavoro, mettendo in secondo piano ciò che ci appassiona rispetto alla preoccupazione su che cosa effettivamente ci farà guadagnare se non di più almeno abbastanza, perchè in fin dei conti il pensiero della sopravvivenza, martellante ai limiti dell’ossessivo, è qualcosa su cui tutti dobbiamo imbatterci, o scontrarci.
La sfida di vivere consapevolmente
“Meditare con la vita significa lasciarsi colpire da ogni situazione, portare la creatività nell’ordinario, osare di essere meno prevedibili con se stessi e con gli altri, introdurre nuova linfa nell’oggi” scrivono Antonella Montano e Valentina Iadeluca in “Meditare con la vita. Tutto quello che c’è da sapere sulla mindfulness” (Edizioni Erikson): “cercare di guardare nostro figlio, il nostro gatto o il nostro partner come se non li conoscessimo, Significa – con le parole della poetessa americana Mary Oliver (1935-2019) utilizzare il respiro per dichiarare pace al mondo nelle piccolissime cose del quotidiano“.
Forse, dietro al segreto del downshifting c’è uno sguardo: la capacità di vedere la nostra esistenza attraverso occhi nuovi e allenare una prospettiva differente. In fondo, non importa quanto in fretta camminiamo o mangiamo, o dove viviamo. La rivoluzione della lentezza è andare alla propria velocità. Abbiamo tutti un sogno nel cassetto che un giorno vorremmo realizzare: forse lo faremo davvero, o magari resterà solo una bellissima cartolina capace di cullare i nostri giorni bui. Ciò che è importante è il tempo che adesso, proprio in questo istante, decidiamo di vedere. Quello che viviamo con consapevolezza è tempo guadagnato, tempo rubato e restituito alla vita. Allora, può essere che nel bel mezzo di una corsa ci fermiamo a guardare il tramonto, scoprendo che non ci accadeva da tantissimo tempo. Ci concediamo un giorno di vacanza, senza un perché, e non di vacanza per fare qualcosa ma di vacanza per non fare.
Così, un giorno scopriamo di saper saltare ancora dentro le pozzanghere; recuperiamo un’ora per fare i biscotti e per un volta, la mattina, ce la prendiamo con calma, ci mettiamo a ridere insieme ai bambini e alle loro calze spaiate. Mentre perdiamo tempo lo ritroviamo. All’improvviso (ri)troviamo tempo: piccole manciate di preziosi minuti. “Credi davvero che la felicità sia un abbaglio da adolescente e nient’altro?” scriveva Carpenter. La rivoluzione più difficile rimane il tentativo, quotidiano e frammentario, di portare il cambiamento dentro la nostra giornata. E poi, con meraviglia, accorgersi che senza cambiare vita la stiamo già trasformando.