Se il colore della passione è il giallo, quello del desiderio è l’azzurro. Il colore del desiderio è anche il titolo del secondo volume della trilogia erotica 80 Days firmata da Vina Jackson. La scena s’è spostata a New York, città delle mille luci e delle mille tentazioni, almeno per la protagonista, Summer, che ha finalmente trovato posto in un’orchestra importante. La storia di amore con il bel Dominik continua fra notti di sesso selvaggio ma anche incomprensioni che rischiano di dividere per sempre la coppia così affiatata fra le lenzuola.
Eccone un estratto, le prime pagine del libro:
Mi baciò nel bel mezzo della Grand Central Station.
Fu un bacio d’amore: breve, dolce e affettuoso, pieno dei ricordi della giornata trascorsa in un clima spensierato, ma anche un memento del fatto che sarebbe stata l’ultima notte insieme a New York. Non avevamo ancora parlato del futuro, e neanche del passato. Ci era mancato il coraggio. Era come se quel breve periodo fosse stato un’oasi di pace tra due spettri minacciosi, che era meglio dimenticare finché l’inevitabile trascorrere del tempo non ci avrebbe costretti ad affrontarli
a viso aperto.
Per altre ventiquattr’ore saremmo stati solo due innamorati, una coppia normale, come tante.
Ancora un giorno e una notte a New York. Il futuro poteva aspettare. Ci era sembrato giusto trascorrere una parte del poco tempo che ci restava alla Grand Central, uno dei posti di New York
che preferivo. È un luogo in cui passato e presente si incontrano, dove i frammenti più disparati della città si mescolano: il ricco e il povero, i teppisti e la gente di Wall Street, i turisti e i pendolari, tutti diretti verso vite diversissime e uniti solo per pochi, frettolosi istanti dalla breve esperienza della corsa trafelata per prendere il treno.
Eravamo nell’atrio principale, vicino al famoso orologio a quattro quadranti. Dopo il bacio alzai gli occhi e mi guardai intorno, come facevo sempre quando ero lì. Mi piaceva lasciar vagare lo sguardo sui pilastri di marmo e sugli archi a volta che sorreggono la mappa rovesciata del cielo mediterraneo, la vista dello zodiaco che secondo antichi cartografi doveva essere quella degli angeli o di forme di vita aliene quando guardavano giù verso la Terra.
L’edificio mi ricordava una chiesa, ma, poiché ero sempre stata incerta nei confronti della religione, avevo più rispetto per la potenza della ferrovia, la prova concreta dell’eterno desiderio dell’uomo di andare da qualche parte. Chris, il mio migliore amico, che viveva a Londra, diceva sempre che non
si conosce mai una città fino in fondo se prima non si usano i mezzi pubblici, e se c’è un posto dove tale principio è vero, questo è proprio New York. La Grand Central Station riassumeva tutto ciò che amavo di Manhattan: era carica di promesse e brulicante dell’energia delle persone che andavano e venivano di corsa, un vero crogiolo di corpi in movimento; l’opulenza e lo splendore dei lampadari dorati promettevano a tutti quelli che passavano lì sotto anche solo con pochi spiccioli in tasca che fuori, da qualche parte, c’era l’occasione giusta ad attenderli.
A New York succedono cose belle: questo comunicava la Grand Central Station. Se ci mettevi abbastanza impegno, se eri pronto a tirare fuori il tuo sogno nel cassetto, allora un giorno la fortuna ti avrebbe sorriso e la città ti avrebbe offerto la tua opportunità.
Dominik mi prese per mano e mi guidò attraverso la folla fino alla scalinata che conduceva alla Galleria dei Sussurri, un piano più in basso. Io non ero mai stata neanche in quella della cattedrale di St Paul a Londra: erano entrambe sulla mia interminabile lista di “posti da vedere e cose da fare”.
Mi fece mettere in un angolo, rivolta verso uno dei pilastri che sostengono i bassi archi della volta, e poi corse al lato opposto.
«Summer» disse, e la sua voce sommessa sembrava provenire dal pilastro, chiara e assolutamente nitida, come se fosse come se fosse stato il muro a parlarmi. Sapevo che si trattava di un particolare
fenomeno acustico dovuto alla struttura architettonica ca del luogo: a quanto pareva le onde sonore erano in grado di viaggiare da un pilastro a quello opposto attraverso la curvatura del soffitto: un semplice trucco che tuttavia metteva i brividi. Dominik era a quasi quattro metri di distanza e mi voltava le spalle, eppure era come se mi stesse sussurrando all’orecchio.
«Sì?» mormorai, rivolta al muro.
«Ho intenzione di fare ancora l’amore con te, più tardi.»
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