L’italiano è una lingua bella e ricchissima e, come tutte le lingue, ha una grammatica precisa e molto articolata.
A tutti capita di commettere errori (anche qui da noi!) sia quando si parla che quando si scrive e la scrittura contratta, cui ci hanno abituati social network e sistemi di chat, molto spesso non aiuta a parlare un italiano corretto.
Accenti, apostrofi e i famigerati congiuntivi: che siano figli della fretta, della disattenzione o di vere e proprie lacune, è bene riconoscere i nostri errori e imparare a correggerli!
Che si tratti della nota musicale o della terza persona singolare del verbo fare, “fa” non vuole mai l’accento.
Quando invece vogliamo spronare qualcuno e dirgli: “Avanti, fa’ qualcosa!”, dobbiamo mettere l’apostrofo.
La forma corretta è po’ con l’apostrofo. Mettere l’accento è uno sbaglio comune dovuto alla necessità di digitare velocemente le parole quando scriviamo col cellulare o sul web. Utilizzare la forma corretta porterà via solo mezzo secondo in più.
L’apostrofo è un segno grafico che indica un’elisione. Ad esempio: anziché “lo albero”, scriviamo “l’albero”; anziché “la antenna”, scriviamo “l’antenna” e così via. In alcuni casi però, anche se cade una vocale, non ci vuole l’apostrofo. Non si tratta infatti di un’elisione ma di un troncamento. Uno dei casi più frequenti è “qual è” che non vuole l’apostrofo.
Il dì indica il giorno. È un termine poco usato che ritrovi spesso nelle posologie dei medicinali in espressioni come “una volta al dì”. Di’ invece è la seconda persona dell’imperativo del verbo “dire”. Quando non c’è né accento, né apostrofo si tratta della preposizione semplice “di”.
Lo sbagliamo tutti. È il modo della soggettività e indica un’eventualità, un dubbio, una possibilità o un desiderio. Quindi, a grandi linee, se parliamo di una cosa certa e reale si usa l’indicativo, altrimenti si usa il congiuntivo. Nella maggior parte dei casi il congiuntivo è utilizzato nelle frasi subordinate in dipendenza da verbi che esprimono un sentimento (“sono felice che tu stia bene”), un’opinione (“credo che sia giusto così”), un desiderio (“vorrei che tu fossi qui”) o un dubbio (“dubito che lei mi risponda”). Viene usato anche con i verbi impersonali: “si dice che sia capriccioso”, “bisogna che tu parta”, “è meglio che tu rimanga a casa”.
Nella lingua parlata non ci facciamo più caso, ma ormai il pronome “gli” ha preso il sopravvento. Eppure la differenza è chiara: “gli” significa “a lui”, “le” significa “a lei”.
“Gli” sta anche sostituendo il pronome di terza persona plurale “loro”. Quando parliamo non ci facciamo caso, ma nella lingua scritta questo errore può provocare confusione.
Il verbo stare alla terza persona singolare non vuole l’accento, mentre lo si usa quando si tratta di un imperativo. Ad esempio: “Matteo, sta’ lì fermo!” (imperativo); “Matteo sta fermo in un angolo” (presente indicativo).