Quando i figli crescono c’è un momento in cui ci si sente felici. Sollevati e felici. Non si ha più il pensiero di portarli a scuola al mattino, accompagnarli a nuoto o dal dentista, stare svegli davanti alla tv per recuperarli dalla discoteca, aiutarli nei compiti. Sono grandi, che facciano da soli. Anche se restano piccoli ancora per un po’ in certe cose, tipo non lavarsi o lavarsi troppo occupando il bagno per ore, dicono e fanno cose da adulti. Prenotano voli aerei per conto loro, rubano giacche e scarpe col tacco per non sfigurare ai 18esimi, elaborano opinioni proprie sulle faccende del mondo, a volte estreme a volte ingenue, ma sempre con punti di vista interessanti. Ed è un piacere starli ad ascoltare. Quando hanno voglia di parlare, naturalmente. Di solito dopo i 18 recuperano la parola.
Di nuovo liberi, di nuovo amanti
In quei momenti ci si guarda indietro e si pensa: il peggio è passato. Siamo stati bravi a portarli fin qua. Non sono diventati vagabondi né tronisti né criminali, adesso tocca a loro. Ci sembra che il lavoro sia finito e ci godiamo la ritrovata libertà. Weekend di mostre e gite al lago senza dare preavviso. Aperitivi con gli amici, cinema all’ultimo minuto, bivacchi sul divano a spizzicare cose senza il pensiero della cena, che tanto loro mangiano fuori e al limite una pasta se la sanno fare. Oppure c’è Glovo, il loro chef preferito, altro che la mamma. Insomma, si torna allo stadio primordiale della coppia, la vita libera e randagia prima dei figli. Una pacchia inaudita. Che tocca picchi sublimi durante l’estate, quando loro partono con gli amici e noi finalmente… soli! Di nuovo padroni del nostro tempo, arbitri delle nostre scelte. Assolti dall’obbligo di visitare parchi gioco, prenotare in luoghi con acclarato wi-fi, muoverci per la spiaggia non prima delle 11. È un po’ come la caduta di una dittatura, si prova euforia.
Poi però ci manca il caos
Poi però i figli crescono davvero, in via definitiva, e decidono di prendere il volo, com’è giusto che sia. L’università fuori sede, il master all’estero, lo stage o il primo lavoro a chilometri da casa. E lì ci prende il panico. Perché tutto quello spazio bianco e vuoto che abbiamo ricreato intorno a noi ci sembra di colpo troppo bianco e troppo vuoto, spaventosamente silenzioso e largo per due persone soltanto, a volte una. Ci manca il caos delle loro camerette, l’intralcio degli zainetti buttati nell’ingresso, i pacchi dei biscotti sempre aperti, il dentifricio senza tappo, i calzini spaiati… La loro presenza, a volte muta a volte rumorosa, nella casa.
Comparse nelle vite dei figli, protagonisti delle nostre
Abbiamo fatto tanto per toglierceli dai piedi e adesso li rivorremmo indietro. Chiamasi “sindrome del nido vuoto” (ne abbiamo parlato qui). E non capisco se è scatenata più dalla paura di perdere loro o di perdere noi, il nostro ruolo nelle loro vite, la nostra voce in capitolo. La nostra ruggente giovinezza. Materia deperibile, di cui riconosciamo la fine forse solo in quel momento. Un ciclo che si chiude. La soluzione è aprirne uno nuovo. Accettando di diventare comparse nelle loro esistenze, ma di nuovo protagonisti delle nostre. Se fate fatica a riprendere le fila, stasera prenotate in un ristorante carissimo, uno di quelli in cui non avreste mai portato quei mangiapolpette dei vostri figli, e vedrete che qualcosa vi verrà in mente.