Se anche tu ha detto o pensato “Ormai, alla mia età…” è tempo di ricrederti. Laura Torretta, counselor e formatrice, nelle prime pagine del suo libro Ricomincio da ME con il counseling (Aldenia Edizioni) riporta una citazione del fumettista inglese William Albert Ward: “A metterci nei guai non sono tanto le cose che non sappiamo. Sono le cose che crediamo di sapere ma che non sono vere”.
È proprio così, le convinzioni che abbiamo elaborato negli anni possono diventare un’arma a doppio taglio. La conferma arriva anche dalle neuroscienze. Oggi gli studi sulla plasticità neuronale ci aprono a nuove prospettive: questo processo di apprendimento e crescita continua per tutta la vita. Tuttavia, abbiamo bisogno di allenare il nostro sguardo sul mondo affinché le finestre cognitive che utilizziamo per decodificare la realtà possano trasformarsi in una porta che si apre sull’infinito, anziché in un carcere vincolante fatto di rigidità e divieti che ci auto-imponiamo.
Da una crisi nascono nuove possibilità
Mai come nel tema della morte appare la difficoltà estrema dell’esistere. Come racconta Laura Torretta: «Ho vissuto una forte crisi e forse per rendermene pienamente conto è stata necessaria un’ulteriore crisi. Come scrivo nel libro, la morte di mio padre ai miei quarant’anni è stato un evento traumatico e probabilmente ha rappresentato la miccia che è servita per scoperchiare un vulcano di insoddisfazione latente. Al tempo stesso, ha creato uno spazio utile per riprendere in mano la mia vita e i miei sogni di gioventù, che non rinnego».
Un grande dolore come un lutto o talvolta una rottura importante come un divorzio, la perdita del lavoro, o più semplicemente una sensazione improvvisa e irrimediabile: ecco come inizia la crisi. Spesso arriva fra i quaranta e i cinquanta, quando l’esperienza di vita è maggiore rispetto ai vent’anni e inizia il tempo dei bilanci, oppure a sessanta, quando si diventa più inclini ad accettare ciò che magari per tanti anni ci siamo vietati di ascoltare.
Nella tempesta delle emozioni, piano personale e professionale si sovrappongono. «Viviamo una dicotomia, eppure il cuore del work-life balance è proprio questo: sapere che il lavoro non è distinto in modo così netto da ciò che per noi è importante nella vita privata» continua l’autrice. «L’aspetto legato alla professione costituisce una parte molto importante nel bilanciamento del nostro equilibrio e nell’autorealizzazione: si tratta di un frammento in cui gli elementi di motivazione e soddisfazione dei nostri bisogni vanno a convergere. È importante vedere come, di periodo in periodo, possano acquisire una diversa importanza. Tuttavia, a volte può accadere che evitando di fermarci non concediamo a noi stessi lo spazio necessario per osservare il nostro processo di trasformazione nel tempo».
Abbiamo bisogno di riformulare un patto di fiducia con noi stessi per poter camminare su nuove strade e andare incontro a orizzonti ancora da immaginare.
Senso del dovere: la vera trappola del cambiamento
L’arrivo di un figlio o le necessità della famiglia possono portare a decisioni in grado di privilegiare questo aspetto dell’esistenza. Secondo le statistiche la maggioranza dei caregiver familiari è donna e ha un’età compresa fra i 45 e i 64 anni: i dati indicano che di queste una buona percentuale è occupata nell’assistenza di più persone, di solito bambini e anziani.
«È ricorrente il tema delle donne che decidono di concentrarsi sulla maternità. Nel frattempo i figli crescono, ma a volte non ci diamo il permesso di rincominciare. O viceversa, come è accaduto a me, per un periodo si sviluppa la vita in un certo tipo di carriera, poi ci si rende conto che esiste la possibilità di una seconda vita, che può farci stare meglio a livello personale e professionale. Discipline come il counseling ci aiutano a ritrovare il dialogo con il nostro mondo interiore». Laura Torretta, che all’inizio della sua vita lavorativa si è occupata di gestione aziendale, a quasi cinquant’anni inizia un percorso di counseling sistemico-relazionale e oggi sfrutta entrambi questi aspetti.
Il fallimento, un’occasione
La vera questione è darsi il permesso di ricominciare, che significa aprirsi a nuove possibilità che non avevamo considerato. Non solo, spesso tendiamo ad azzerare ciò che abbiamo vissuto e questo accade di frequenza di fronte a un fallimento. Invece, per costruire la nostra evoluzione in senso positivo e immaginare un’identità che tenga conto delle nostre trasformazioni nel tempo, abbiamo bisogno di vederci come la somma di tutto ciò che abbiamo vissuto. Niente va perso, anche se la memoria talvolta sembra voler creare dei buchi neri: sei quello che sei oggi grazie a tutto ciò che hai visto, sperimentato, sbagliato, odiato e amato fino a ora.
La consapevolezza, un punto di partenza
«A volte non ricordiamo più niente, è come se non avessimo più valore… come se qualcuno ci potesse togliere valore. Ci interroghiamo poco sui nostri bisogni più veri perché c’è sempre qualcuno intorno a noi che ci dice qual è il nostro bisogno, dalla società alle mode, i genitori o chiunque. Ecco perché è importante darsi uno spazio di riflessione e ricordarsi che i nostri bisogni di oggi possono essere diversi da quelli di ieri» spiega Laura Torretta.
«La parola cambiamento, che ormai suona ovunque, sembra arrivare addosso alle persone come un diktat, ma con una connotazione che contiene molto senso del dovere». “Devo cambiare”, “devo cambiare”, continuiamo a ripeterci, eppure il cambiamento sembra essere ogni volta più lontano. Aggiungere il dover-essere o il dover-fare al cambiamento significa caricare il processo di pesantezza, difficoltà e di un’aspettativa spesso vissuta come insostenibile. Tanto che… con molta facilità lasciamo perdere e finiamo per rimandare, persino se si tratta di cose a cui teniamo molto.
Ascoltare (solo) la propria voce, il primo passo
Come spiega l’esperta, la parola “dovere” fa immediatamente scattare il meccanismo che tanto bene conosciamo del genitore che ci dice di fare una certa azione, e allora, come un tempo, ci sottomettiamo a questa volontà esterna che negli anni abbiamo interiorizzato. Lo facciamo perché ci hanno insegnato a essere bravi bambini. Fare il ribelle? È solo un’altra faccia della medaglia: quante energie abbiamo sprecato, o continuiamo a sprecare, realizzando i sogni altrui? Adeguare la nostra identità a un’immagine che viene dall’esterno è un processo nascosto in profondità e per accorgersene è necessario scavare dentro se stessi, sfiorando territori che fanno paura perché significa mettere in discussione l’immagine di sé che abbiamo costruito negli anni.
Tutto scorre: il cambiamento è vita
«Quello che ho imparato in questi anni di ricerca del mio sé più autentico innanzitutto è riconoscere le maschere che avevo messo in azienda al lavoro, ma anche con gli amici, per piacere» conclude l’autrice: «In realtà il cambiamento è vita: noi nasciamo per essere ma anche per andare, altrimenti rimaniamo fermi, immobili, inchiodati. Da qualsiasi punto di vista, scientifico, spirituale, emotivo, noi cambiamo a prescindere. Però se non osserviamo e cavalchiamo il cambiamento in modo consapevole finiamo per subire questo processo, anziché viverlo».
Ricercare nuove esperienze, ma soprattutto fare tesoro del fatto che i nostri bisogni mutano nel tempo, ci aiuta a ricordare che giorno dopo giorno diventiamo persone diverse. Riconoscere nuove risorse è un processo senza fine di scoperta di sé. Perché siamo vivi, fino all’ultimo respiro.