È più facile buttare che riparare, perché aggiustare qualcosa è un esercizio di tempo e pazienza, oltre che di umiltà. Significa sopportare la frustrazione con calma e tollerare il semplice fatto che la perfezione ci sfugga dalle dita per prendersi gioco di noi e dei nostri parametri, sottraendosi al controllo e al senso classico del giudizio.
C’è chi di questo ha fatto un’arte e una filosofia. In Giappone la tecnica del Kintsugi è la pratica di riparare crepe e rotture attraverso l’utilizzo di materiali preziosi, come oro e argento.
Esercizio antichissimo, oggi questa consuetudine diventa metafora di resilienza. Dagli oggetti, lo sguardo si sposta sulle persone e allora il Kintsugi, poesia dell’imperfezione, si trasforma in celebrazione delle nostre cicatrici. Perché attraverso una colata di luce preziosa si possa imparare, giorno dopo giorno, a trasformare il dolore delle ferite in un rito di nascita e rigenerazione.
“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”
Leonard Cohen
La storia e il significato del Kintsugi
L’anima non si spacca, rimane intatta. In fondo è solo grazie a questo pensiero se possiamo pensare alla ricostruzione e trovarne la forza. Secoli di speculazione filosofica finiscono per suggerirci un collegamento metafisico, ma in effetti l’anima è anche una questione estremamente pratica. Si tratta della parte che rende un certo qualcosa esattamente ciò che è, l’essenza che la costituisce e sostiene. Dopo tutto, parlando di una lampada possiamo riferirci alla sua anima in fil di ferro, non è vero?
Anima è principio vitale e ciò che dà forma. In legatoria l’anima è la striscia di cartone che viene fissata sul dorso quando si crea un libro. L’anima di un bottone? Il nudo dischetto che verrà poi ricoperto di stoffa. Poi c’è l’anima scura della matita, una barra di grafite da inserire nella scanalatura di legno centrale, invisibile dall’esterno.
La parola Kintsugi, 金継ぎ è composta dalle parole “oro”, “kin“, e “ricongiungione”, “tsugi“. Come collante in Giappone viene utilizzata la lacca urushi, ricavata dalla pianta omonima, Rhus verniciflua. Alla lacca urushi gli artigiani aggiungono nori urushi, farina di riso, o mugi urushi, farina di grano ed è con questa pasta che uniscono i frammenti. L’operazione di stuccatura può essere ripetuta più giorni di seguito, fino al risultato ottimale. Dopo l’essiccazione si elimineranno eventuali eccessi grazie a una pietra abrasiva bagnata nell’acqua. Infine, con la punta di un pennello immerso nella lacca urushi rossa vengono stuccate le linee di rottura, per poi lasciar cadere la polvere d’oro, che sarà lucidata con il tessuto, wata, e lasciata asciugare.
L’artigiano che dedica il suo tempo al lento, paziente lavoro necessario a riparare è in questo che mette la sua totale attenzione: all’anima, alla parte ancora viva e vitale che ancora esiste al di là della spaccatura.
Le prime tracce della pratica Kintsugi risalgono al 15esimo secolo, anche se probabilmente le sue origini affondano ancora più indietro, nella notte dei tempi, quando i maestri zen, abituati a vivere l’essenzialità come stile di vita e di pensiero, osservavano e celebravano la perenne mutevole bellezza della natura.
Leggenda racconta che la storia della nascita del kintsugi sia legata alla figura di Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun. Shogun, letteralmente comandante dell’esercito, era un titolo militare conferito ai dittatori che dal 1192 fino al 1868 governarono il Giappone. Sembra che Ashikaga Yoshimasa ruppe un prezioso oggetto a cui era molto legato, forse una tazza, ma dopo averla fatta aggiustare in territorio cinese scoprì che la riparazione era stata eseguita aggiungendo semplici punti metallici, per questo sollecitò gli artigiani nipponici a trovare una nuova soluzione. È allora che nasce il kintsugi, l’arte di riparare le crepe attraverso l’uso dell’oro e delle resine, l’arte di dare nuova dignità alla fragilità per celebrarla con il materiale più prezioso: l’oro, simbolo luminoso dell’eternità.
L’arte zen di vivere il presente
Durante il regno di Yoshimasa in Giappone ebbe grande spazio il buddhismo Zen e nacque quella che nei secoli diverrà celebre come cerimonia del tè, oltre al teatro Nō e l’ikebana, l’arte di disporre i fiori recisi. Fu un’epoca di arte e filosofia, influenzata dalle pratiche dei monaci zen, appartenenti a scuole buddhiste antichissime nate dopo i lunghi periodi di meditazione fra le montagne, durante i viaggi in Cina e in India. Immerso nella natura, il monaco osserva il naturale scorrere del tempo, ascolta il suono del fiume che scorre costante, il sole e la pioggia sulla pelle. Accetta il naturale flusso dell’esistenza.
“Mono no aware”, forse non ne hai mai sentito parlare. Questo concetto è ciò che rende il kintsugi non una semplice tecnica per riparare oggetti, ma un autentico atto di consapevole devozione. “Mono no aware” significa partecipazione emotiva alla bellezza e transitorietà della natura, onorando l’incessante mutamento che è proprio dell’esistenza.
Il dolore fa parte della vita, la trasformazione è inscritta nella partitura dell’esistenza, tuttavia noi cerchiamo di immobilizzare il ritmo e quando accade la musica smette di suonare, non danziamo più. Ballare è accettare di stare nel vuoto, sfidare la gravità, cadere forse, sovvertire l’equilibrio. Il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo può diventare “Mono no aware“, commozione e immenso stupore: ahhh, suono onomatopeico, respiro del cuore che si apre.
La filosofia del Kintsugi, arte della pazienza, ha a che fare con il tempo, perché della vita celebra il nostro passaggio attraverso le cose e questo transito non ci lascia mai indenni. Come insegnano gli oggetti, il tempo di per sé non esiste. Quello che noi viviamo è l’impatto che il tempo lascia sulla nostra pelle. La superficie, che sia epidermide o ceramica, si ferisce, va in frantumi, si scheggia. Non è più come il primo giorno, non è più nuova di zecca. Ma è proprio questo a conferire la magia che rende qualcosa caro al cuore, assolutamente speciale: il tempo e l’esperienza che abbiamo vissuto insieme creano il legame con ciò che amiamo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”, dice la volpe al Piccolo Principe nel celebre libro di Antoine de Saint-Exupéry. La frattura allora diventa dettaglio non da nascondere, bensì celebrare e onorare. Proprio come le nostre cicatrici.
L’importanza di pensare a se stessi in modo nuovo
Quando lascio andare quello che sono, divento ciò che potrei essere.
Lao Tzu
Non torneremo mai ad essere ciò che siamo stati, questa è la lezione che ci insegna l’arte del Kintsugi. Dopo una grave malattia o un cambiamento di vita, soprattutto quando si tratta di un terremoto che spazza via tutte le nostre certezze, è una domanda che nasce quasi spontanea: quando tornerò a essere la persona di prima?
Nella cultura in cui siamo cresciuti, quella occidentale, ci sono punti fermi che consideriamo imprescindibili: la nostra immagine, l’identità, che racconta chi siamo insieme la nostra data di nascita e al luogo di provenienza, l’età anagrafica. Eppure la nostra identità è in continua trasformazione, un flusso caotico proprio come lo è l’esistenza, che accade momento per momento. Senza che si possa prevedere la sua meta finale, è un senso in costante divenire.
Evolvere il concetto di resilienza, di cui da alcuni anni si parla sempre più spesso, significa iniziare a pensare a noi stessi in modo nuovo. No, non sei la persona che eri vent’anni fa. Per fortuna!
Anche di fronte a un cambiamento positivo spesso nutriamo questa aspettativa che poi ci delude. In realtà, l’oro e l’argento che colano nelle fratture delle meravigliose opere Kintsugi ci raccontano che nessuna vita è uguale. È il nostro vivere il tempo ciò che ci ha formato, sono le esperienze che hanno dato forma e sostanza alla mappa scritta sulla pelle delle nostra storia ed è una storia che ogni giorno portiamo avanti, coraggiosamente, a volte senza rendercene nemmeno conto.
Sviliamo noi stessi perché vogliamo essere nuovi di zecca e non vediamo quando orgoglio e amore c’è in ogni ferita in cui abbiamo scoperto vulnerabilità e forza, il nostro lato più umano.