Dopo aver letto le parole del poeta Franco Arminio, mi è tornata un po’ di speranza. Perché ciò che dice è proprio vero: «L’uomo di questo secolo è ipocondriaco per eccellenza. Lo definisco homo timens, esemplare caratterizzato dalla paura. Siamo più soli, non esistono più le rivoluzioni e la politica, nemmeno la religione ha più tanta presa. Prima eri proiettato verso l’esterno, ora verso l’interno, dove c’è sempre qualcosa che non va. C’è un ripiegamento, un ristagno narcisistico sul corpo, che produce sintomi immaginari». E io di sintomi immaginari ne ho da vendere.

L’ipocondria di Alice

Mi chiamo Alice, ho 28 anni e mi sono da poco laureata in Lingue all’università di Genova, ho una vita buona e genitori affettuosi, presto insegnerò in una scuola media. Ma quando mi sveglio inizia la mia corvée quotidiana: sono arrivata a fare 5 docce al giorno, pulisco il bagno almeno 3 volte con litri di candeggina, lavo i vestiti con il disinfettante e, se mi trovo addosso un livido o un graffio, vado nel panico: quale malattia terribile si sarà insinuata dentro di me? Ogni giorno ne trovo una differente, ma quella che mi fa più paura è la leucemia.

Come potrò mai accorgermene se è silente? Allora mi attacco a Internet, alla ricerca di ogni informazione possibile, mi addentro in ogni descrizione, certa che troverò gli stessi sintomi su di me. So benissimo che è un’attività perversa che non si arresta mai e serve, in realtà, solo ad alimentare le mie paure. Con la mia psicologa cerco di ragionarci su, ma la soluzione sembra lontana. Nascondo una fragilità a cui non riesco a dare voce se non in questo modo? Sono vulnerabile, debole?

Fino ai 23 anni non soffrivo di questa “malattia”. Io la chiamo così, perché mi rende la vita amara. Ero una ragazza allegra, poi sono precipitata in questa ansia senza fine. Arrivo a chiedermi assurdamente, mentre i miei genitori cucinano: «E se avessero toccato i cibi con le mani sporche? E se la carne non fosse fresca e mi venisse un’intossicazione alimentare? E se, e se…».

La lettura contro l’ipocondria

E quando chiedo al medico di prescrivermi le analisi nel tentativo di tranquillizzarmi, l’ansia aumenta: mentre attendo i risultati, nella mia testa prendono forma gli scenari più catastrofici. Immagino di avere patologie tumorali gravissime e allora mi butto a cercare i migliori oncologi in circolazione, certa che ne avrò bisogno. Finirà questa tortura? La psicologa mi assicura che, lavorandoci su, troverò una strada.
E devo dire che in alcuni casi leggere mi aiuta molto.

Cosa leggo? A volte, lo ammetto, testimonianze di scrittori che hanno vissuto la stessa esperienza; altre mi tranquillizzo con storie diverse. Ultimamente ho tra le mani Il giardino contro il tempo di Olivia Lang, un’autrice inglese che, anche se non ha sofferto di ipocondria, ha avuto altre fragilità e devianze. Leggendo il suo racconto su come coltivare il giardino l’abbia allontanata dalla paura del Covid, dal tempo di spavento in cui viviamo, mi rallegro. E allora guardo la natura e penso che ne faccio parte anch’io. Se riesce a sopravvivere una pianta all’incuria, al clima, a tutto ciò che l’aggredisce, forse ci riuscirò anche io.

Artisti e scrittori: tutti ossessionati da quegli strani sintomi

A sentire le manie che la studiosa Caroline Crampton ha catalogato nel saggio A Body made of glass: a history of ipocondria (Un corpo fatto di vetro: una storia dell’ipocondria, Granta Books, a breve in uscita in Italia), non si può fare a meno di pensare che anche noi qualche volta abbiamo fatto parte del gruppo. Secondo la definizione del DSM-5, il più importante manuale diagnostico dei disturbi mentali, si definisce ipocondriaco chi per una durata superiore ai 6 mesi si preoccupa eccessivamente di avere o acquisire una grave malattia, pur non manifestando sintomi.

Secondo il Censis, ne soffre il 6% della popolazione e il 20% dei pazienti che si rivolgono a un ambulatorio medico, mentre rappresentano il 32,4% della popolazione coloro che cercano i sintomi su Internet per farsi delle autodiagnosi. Freud definiva il temperamento ipocondriaco “essere innamorati della propria malattia”: un’inclinazione, appunto, più che una patologia, individuata sin dall’antichità. Figuriamoci oggi che la tecnologia ci permette con uno smartwatch di ricevere notifiche in tempo reale su battiti del nostro cuore e quant’altro. Ma, se l’era digitale ha allargato la categoria, gli ipocondriaci esistono da sempre.

Storie di ipocondria illustre, Andy Warhol e Marcel Proust

Ossessionato dall’aspetto fisico, Andy Warhol usava dire: «Non crollo mai perché non sono mai del tutto intero». Perde i capelli intorno ai 20 anni e per questo indossa una sfilza di parrucche, trasformando così un problema fisico in una provocazione. Si lamenta della sua pelle a macchie rosse, risultato di un virus contratto per strada, evento che descrive in tal modo: «Vidi camminare una ragazza dalla pelle bicolore e ne fui così affascinato da seguirla. Due mesi dopo ero bicolore anch’io». In realtà le sue macchie sulla pelle erano le conseguenze delle crisi di nervi di cui cadeva preda da bambino. Si tiene lontano dagli ospedali, considerati alla stregua di lager, si fa curare da guru alternativi e gira con una collana di cristalli intorno al collo, dotata, secondo lui, di “magici poteri curativi”.

Marcel Proust aveva una personalità sensibile e nevrastenica, peggiorata dall’asma considerata all’epoca una forma di nevrosi ereditaria tipica della classe agiata. Come rimedio, viveva recluso in camera e scriveva a letto. Al punto che la stessa Virginia Woolf, un’altra che di malattie immaginarie era una specialista, si chiese nel saggio Sulla malattia come mai lo stare a letto non fosse ancora diventato un tema di alta letteratura! Proust era ossessionato dagli odori al punto che nessun ospite poteva portare fiori o usare profumo, pena ferocissime emicranie. E aveva una mania per gli asciugamani: ne usava 20-25 al giorno. Viene in mente il mitico autore di tante biografie, Lytton Strachey, che diceva: «Il pretesto della malattia protegge come cerimoniali di corte».

Il pianista Glenn Gould

A Glenn Gould era vietato dare la mano. Invece una volta un accordatore distratto gli appioppa una pacca sulla spalla. Risultato: Gould sostiene che gli abbia abbassato la scapola di 4 centimetri, infiammandogli il quarto e quinto dito della sinistra. Si ingessa e chiede 300 mila dollari di risarcimento per “infortunio alla radice nervosa del collo”. Si nutre di biscotti e caffè, “scocciato com’è dalla necessità di mangiare”. «L’atteggiamento di Gould nei confronti del cibo suggerisce il desiderio di scavalcare completamente il corpo, il sogno di diventare un puro condotto di concetti musicali, slegato dal disordine e dall’imprevedibilità del come l’essere mondo» scrive Caroline Crampton. Ha una conoscenza enciclopedica della farmacologia, accompagnata da un uso scriteriato dei medicinali prescritti: barbiturici, tranquillanti, pillole per l’ipertensione, il mal di testa, la gotta, antibiotici, vitamina C, caffeina e codeina. E, come Warhol, ha il terrore degli ospedali: quando la madre viene ricoverata, non va a trovarla, ma le telefona ogni giorno per ore.

Quando il malato immaginario è uno scienziato

Strano che una tale ossessione possa prendere corpo nella mente di uno scienziato, eppure Charles Darwin ne è un limpido esempio. Mentre, chiuso nel suo studio, va alla ricerca della strada che tracci l’evoluzione della razza umana, si convince di aver contratto una terribile malattia a causa di un parassita tropicale. La ragione? Quella che lui chiama la “malattia percepita”: una fastidiosa flatulenza che registra con somma attenzione. Si cura con lavaggi intestinali di acqua gelida e bagni freddi. È così preoccupato dalla sua “malattia” che all’amico Joseph Hooker scrive di sentirsi spento, stupido, vecchio, fiacco. Ciò però non gli impedisce di mettere a punto una strana in diretta sedia a rotelle, ottenuta tagliando le gambe alla sua poltrona preferita. Così facendo Darwin ottiene di potersi spostare per lo studio senza dover smettere di scrivere e su una tavoletta appoggiata ai braccioli comporrà la teoria che cambierà il modo di vedere il mondo.

Il parere dell’esperto

Lo psicoterapeuta Luigi Bagnato risponde a quattro domande sull’ipocondria.

Cosa s’intende per ipocondria?

«Nell’ultimo manuale diagnostico a cui tutti gli psicologi e psichiatri fanno riferimento, il DSM-5, ciò che veniva inteso come disturbo ipocondriaco è stato specificato attraverso una suddivisione in due distinti problemi: il disturbo da sintomi somatici e il disturbo da ansia di malattia».

Ovvero?

«Il primo corrisponde a un quadro focalizzato sui sintomi più o meno presenti almeno da 6 mesi che portano a pensieri sproporzionati e persistenti rispetto alla loro gravità. Il secondo è maggiormente focalizzato sulla paura: i sintomi fisici non sono presenti o lo sono in lieve entità. Il disagio non deriva direttamente dal sintomo, ma dal significato che gli viene dato, ovvero la paura di una diagnosi infausta».

Chi soffre di disturbo da ansia di malattia come si comporta?

«Si distinguono due tipologie di pazienti: coloro che richiedono assistenza continua ma anche controlli medici, consulti e visite (è il caso di Alice); e poi c’è chi, al contrario, evita l’assistenza medica rimandando i controlli».

Come ci si può curare?

«Con l’aiuto di uno psicologo. La psicoterapia che la ricerca scientifica ha dimostrato essere più efficace è quella cognitivo-comportamentale, di solito a cadenza settimanale: il paziente insieme al terapeuta si concentra sull’apprendimento di modalità di comportamento e di pensiero funzionali a spezzare i circoli viziosi dell’ansia».