«Il meglio è nemico del bene» sosteneva Voltaire. Eppure tanti di noi si “fissano” a svolgere il proprio lavoro meticolosamente, ricontrollarlo fino a tardi, dare sempre il massimo. Sono tutti segni di perfezionismo, un meccanismo di funzionamento (e anche di autovalutazione) che nel tempo diventa logorante.

I tratti caratteriali di chi insegue il perfezionismo

Dalla laureata in medicina che crolla dopo aver vinto un concorso in un prestigioso centro di ricerca alla manager che va in crisi davanti a una promozione, sono vari i modi in cui l’eccesso di dedizione fa pagare il suo prezzo. Ma in comune i perfezionisti hanno «precisi tratti caratteriali: ossessività, rigidità, mania di controllo» spiega lo psicologo Giorgio Nardone, che racconta i casi citati sopra in La paura di vincere (Ponte alle Grazie). «Il perfezionista insegue continuamente obiettivi sfidanti, perché vede la prestazione come una conferma del suo valore». Se la continua focalizzazione sul risultato è essenziale nello sport o nella ricerca scientifica, dove le valutazioni sono oggettive, nella vita quotidiana inseguire obiettivi estremi non produce gli stessi esiti. Per un voto alto a un esame o una vittoria in un match, ci sono altrettante prestazioni stellari in ufficio o in famiglia che non vengono riconosciute né premiate, generando sindromi depressive in chi si aspetta un riscontro da standard strenuamente ambiziosi, conclude uno studio apparso sulla Personality and Social Psychology Review.

Il perfezionismo è l’effetto collaterale della competizione

Il fatto è che ormai a rischio perfezionismo lo siamo un po’ tutti, perché «dagli anni ’80 a oggi l’idea di dover sempre vincere è passata dall’ambito agonistico ad altri campi» sostiene Stefano Bartezzaghi, autore di Se vinci non sai cosa ti perdi (Bompiani). Complice anche la precarietà lavorativa che genera insicurezza e spinge a vedere gli altri come potenziali competitor, il lavoro si è trasformato in una lotta per emergere e così, alla fine, si è rovesciata l’impostazione “sana” secondo cui «non è l’aver vinto a fare di qualcuno un vincente, ma è un atteggiamento da vincente, cioè un mix di competitività e grinta, a farti vincere». Ecco perché anche chi non avrebbe una natura agonistica si sente spinto a primeggiare: non farlo equivale a indicare l’incapacità di stare sul mercato, l’assenza di garanzia sul proprio essere performante. E l’obbligo a svettare riguarda anche il privato: quante madri conosciamo che vanno in crisi se non riescono a organizzare le giornate dei figli con l’efficienza di un manager, pur avendo anche un lavoro e dei genitori da gestire?

Quando il perfezionismo è un ostacolo

Eppure c’è una bella differenza tra puntare all’ottimo o all’ottimale. Il primo implica di alzare continuamente l’asticella per dimostrare la propria bravura. Il secondo si concentra non sull’obiettivo, ma sul processo per arrivarci. E il diverso atteggiamento incide sugli esiti: uno studio effettuato su 167 atleti ha rivelato che gli sforzi perfezionistici sono un predittore positivo di buoni rendimenti, le preoccupazioni perfezionistiche no. Detto più semplicemente: impegnarsi migliora il risultato finale, voler primeggiare lo peggiora. Come possiamo evitare di inseguire un ideale inattingibile? Una prima strategia è “boicottare il proprio perfezionismo”, per accorgersi che non è la fine del mondo se non si arriva al top. Nardone invita i suoi pazienti a «fare volontariamente qualcosa di imperfetto: la rottura di un rigido schema di azione innesca un meccanismo liberatorio, che in genere dal lavoro contagia anche altri settori dell’esistenza». Poi bisogna definire in modo realistico il livello in cui un compito è sufficientemente buono, senza incaponirsi ad andare oltre. Infine, per raggiungere un obiettivo in modo efficiente, cioè ottimizzando il tempo e le energie disponibili, il segreto sta nel lavorare in quello che lo psicologo Daniel Goleman, nel saggio Optimal (Rizzoli), chiama “stato ottimale”: un momento in cui siamo così concentrati che tutto il resto scompare.

Abbasso il perfezionismo, viva la comfort zone!

La riuscita di una prestazione è comunque collegata a un aspetto emotivo: quando entriamo nel cosiddetto flow, la focalizzazione sul compito va di pari passo con il dimenticarci delle preoccupazioni su quanto bene lo svolgiamo e su cosa gli altri ne penseranno, che sono tratti tipici dei perfezionisti. Addirittura, secondo uno studio sul Journal of occupational and organizational psychology, sentirsi a proprio agio, non ritrovandosi in balia della paura di sbagliare o dell’ansia da scadenza, è più importante per giungere a buoni risultati di quanto lo sia l’equilibrio tra le nostre capacità e la sfida che ci poniamo. «Per lavorare nel modo ottimale va ribaltato il nesso tra causa ed effetto» dichiara Emilio Gerboni, psicoterapeuta e autore di La vita inizia nella comfort zone (Flaccovio). In altre parole, «invece di sentirci bene perché abbiamo ottenuto un buon risultato, è probabile che abbiamo ottenuto un buon risultato perché, mentre lavoravamo, ci siamo sentiti bene, rimanendo cioè nella nostra comfort zone». Con questo nome Gerboni non intende lo stato mentale in cui agiamo in modo abitudinario e automatico, bensì quello in cui esprimiamo le nostre capacità in armonia con le nostre emozioni. Ciò significa interrogarsi, per esempio, sul perché ci sentiamo obbligati a strafare o ascoltare campanelli d’allarme come l’ansia.

Concentriamoci su quello che ci riesce meglio

«Una persona dà il meglio di sé quando agisce in modo naturale, quando non si sforza. Eppure quante volte ci ostiniamo a fare di più, anziché concentrarci su ciò che ci viene meglio e delegare il resto?» si chiede Gerboni, citando il caso del campione di basket Michael Jordan, la cui pigrizia leggendaria si estendeva dovunque tranne che sul campo da gioco. Interrogarsi sullo stress legato a certe situazioni è un primo modo di eliminare i fattori di disturbo – per esempio riorganizzando le priorità in modo da prendersi più tempo per un compito impegnativo – in vista di un fine più generale: raggiungere la tranquillità necessaria all’eccellenza. E poiché la vita non è una gara, e nessuno ci premia per un percorso impeccabile, alla fine ha più senso essere un fuoriclasse imperfetto che un perfezionista senza medaglie.

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