Non fare l’isterica. Chissà quante volte ve lo siete sentito dire. Bastava che alzaste un po’ la voce, che sbatteste la porta, che pretendeste ascolto o semplicemente rivendicaste le vostre ragioni in modo meno urbano del solito ed ecco che vi appioppavano quell’aggettivo. Isterica. Andate sul vocabolario e troverete questa definizione: “Che si associa a isterismo o che ne soffre: crisi i.; una donna i.; estens. persona soggetta a vistose crisi di nervi o a reazioni emotive inconsuete o incontrollate”. Ovviamente ho cercato il vocabolo al maschile, eppure il dizionario riporta un esempio al femminile. Del resto, la parola viene dal greco ysterikos, che deriva da ystera, utero. Una persona che perde le staffe ed è donna non è arrabbiata, è isterica. I maschi si arrabbiano, le femmine no, loro hanno un crollo nervoso. Se non sono isteriche, sono pazze. Comunque malate. Perché non è mica normale una che va in escandescenze perdendo il controllo.
Ci dicono di non arrabbiarci fin da piccole
La rabbia è un’emozione come le altre, né buona né cattiva. Eppure già da bambine ci insegnano che non siamo autorizzate ad esprimerla. “Non urlare che diventi brutta” ci dicono da piccole. “Una signorina non si comporta così” ci fanno notare da adolescenti. “Ma che hai il ciclo?” ci zittiscono da grandi, nascondendosi dietro una battuta. La buttano sui nostri “giorni no”, come se fosse una questione biologica. Di ormoni che ballano e di endorfine in riserva! C’è persino chi scomoda l’astinenza sessuale. “Chissà da quant’è che non lo vede…”. Lui, l’uomo, in versione sineddoche, una parte per il tutto. Che narcisismo! E noi lì, a fare le brave, a chiudere la bocca e a ricomporci. Abbozzare. Digerire.
La rabbia femminile nella mitologia
Il problema è che la rabbia femminile fa paura. Da sempre. Basti pensare alla mitologia. Le Furie sono nel mondo latino le dee della vendetta. I greci le chiamavano Erinni. Hanno serpenti al posto dei capelli, bocche spalancate per le grida, fruste e tizzoni in mano, vestiti funerei. Mentre l’irascibile Achille è bello ed eroico nell’Iliade (diciamolo, un figo, malgrado il tallone), loro, le Erinni, sono brutte e cattive. Benché la loro collera sia mossa da nobili motivi, cioè indirizzata alla difesa dei deboli, la loro immagine è terrificante. Esattamente come quella delle streghe e delle arpie. Altre belle figure a cui veniamo associate, quando ci concediamo di non fare le brave.
Siamo cresciute con madri che stavano zitte
Il guaio è che siamo così abituate, anzi addestrate, a interpretare la parte delle fanciulle docili e beneducate, che siamo le prime a negarci il diritto alla rabbia. A volte per debolezza, a volte per pigrizia, a volte solo per comodità. Si fa prima a lasciar correre che a ribellarsi; a tenersi tutto dentro invece che a esporre le proprie ragioni con l’impeto necessario per farsi ascoltare. Del resto, siamo cresciute con madri che stavano zitte per non alimentare il conflitto, a loro volta figlie di una cultura basata sulla nobile arte del quieto vivere.
Rabbia femminile: come si combattono i tabù?
Mia nonna faceva addirittura “shhhh!”, portandosi il dito alla bocca, quando in casa si alzava la voce. Ergendosi a nume tutelare dell’armonia familiare. Non si poteva parlare. Ribattere. Piuttosto si borbottava in disparte. O peggio, si somatizzava.
Tutti quei mal di pancia, quelle emicranie, quelle gastriti di cui hanno sempre sofferto le femmine non sono altro che il risultato delle emozioni negate
Eppure, anche oggi che lo sappiamo, facciamo fatica ad affrancarci dal diktat del silenzio. E guardiamo ammirate, ma anche un po’ atterrite, quelle di noi che esercitano senza sforzo il potere della ribellione. Quelle che si fanno valere. Che sanno dire di no. Che se ne fregano di “diventare brutte” quando sentono il bisogno di gridare. Una è mia figlia, e come lei tante della sua generazione. Che, quando si arrabbiano, veramente ti spettinano. Facendoci chiedere da madri attente e “ingaggiate”: dobbiamo correggerle oppure elogiarle, queste ragazze senza catene? Capite che impegno la guerra ai tabù? Un conto è parlarne, il guaio è la pratica.