Tappezzeria. È così che si sente Penelope Featherington nella serie Bridgerton. Quando va ai balli, Pen si posiziona sempre ai lati del salone, confondendosi anche cromaticamente con pareti e arredi, mimetizzandosi tra gli ospiti. In ogni occasione sociale, lei cerca il suo angolo. Un piccolo ritaglio di spazio che la renda un’osservatrice in trasparenza, precondizione per nutrire la brillante penna di Lady Whistledown. Quante cose può dire di noi il modo in cui ci relazioniamo con lo spazio? Come mai c’è chi desidera il conforto dell’angolo più di altri? E cosa ne sarà degli spigoli-rifugio, ora che tutti scelgono l’open space? Questa è una sorta di indagine “socio-psico-architettonica”.

C’è un dialogo costante e immersivo tra ambiente e persona
Come Penelope, anch’io rifuggo dalle circostanze artificiose e affollate, specie quelle che scaricano la mia batteria sociale più velocemente di quanto non facciano le app aperte in background sul cellulare. Quando sono a disagio, e mi sento un corpo estraneo nella stanza, mi sembra di avvertire una forza centrifuga che mi spinge gradualmente verso le pareti. C’è il muro a coprirmi le spalle, in senso letterale e metaforico, e quella sensazione semi-uterina mi aiuta a concentrarmi sulla gestione dell’unico mio lato esposto. L’esatto contrario avviene quando mi trovo in un luogo “comfort”. Se mi sento libera di espormi a Nord, Sud, Ovest ed Est, posso sostare in un qualsiasi punto della stanza, non sento l’esigenza di un angolo che mi capisca e contenga, che mi protegga dai pensieri più ingombranti.

«C’è una bidirezionalità tra ambiente e persona, un dialogo costante e immersivo tra gli elementi dell’ambiente e il nostro cervello. I nostri cinque sensi captano continuamente stimoli – luci, suoni, odori, colori, forme, etc. – e comunicano il messaggio recepito all’area limbica del cervello, dove ippocampo e amigdala gestiscono la memoria emozionale» spiega Silvia Ruffilli, Consulente di Feng Shui e Architettura del Benessere, Esperta di Psicologia dello Spazio, Autrice, Formatrice e Divulgatrice. «A ogni stimolo segue prima una reazione biochimica (battito cardiaco, respiro, sudorazione, etc.), che mette il sistema mente-corpo in un assetto di distensione (se l’ambiente è amichevole e tutto è sotto controllo) oppure di contrazione (se l’ambiente è ostile e minaccioso). E poi una risposta cognitivo-comportamentale, che influenza come ci muoviamo e interagiamo nello spazio. Questa risposta è diversa per ciascuno di noi, perché integra anche il nostro vissuto individuale». Su questa bidirezionalità concordano tanto la Medicina Cinese quanto le ricerche scientifiche della Psicologia Ambientale e delle Neuroscienze applicate all’Architettura.
Così se da un lato l’ambiente ci stimola con i suoi elementi concreti, dall’altro noi plasmiamo l’ambiente per validare il nostro mondo interiore fatto di pensieri, idee, convinzioni ed emozioni.
«Per rispecchiarci e riconoscere le nostre dinamiche profonde – conclude Ruffilli – abbiamo bisogno di personalizzare e allestire lo spazio a nostra immagine e somiglianza, sia nei suoi lati forti che nei lati deboli».
Il piacere di sedersi nell’angolo
Mi domando, dunque, quali lati della mia persona e del mio vissuto trovino un proprio “simile” in un angolo. Da dove provengono la soddisfazione e il piacere di stare nel punto d’incontro tra due pareti? Come scrive lo scrittore Geoff Dyer in The Guardian, «nel libro La poetica dello spazio, Gaston Bachelard sottolinea che il piacere di stare in un angolo non ha nulla a che fare con la sensazione di essere messi alle strette. In quella situazione si è sotto pressione, minacciati; stare in un angolo, al contrario, è una posizione di sicurezza. E mentre voltare l’angolo significa lasciarsi alle spalle una fase precedente della vita, un posto all’angolo significa che le uniche cose dietro di sé sono muri e forse cuscini. Ci si accontenta di restare fermi, senza alcun desiderio di andare avanti».

È possibile che la scelta di sedersi nell’angolo sia il compromesso tra il desiderio di stare con gli altri e la necessità di uno spazio personale. Il piacere di rimanere nascosti, ma non isolati. Quando la suddetta forza centrifuga mi porta ai lati della stanza, punto dal quale, come Penelope, ho la possibilità di contestualizzare (scelta rara di questi tempi), avverto la necessità di percepirmi invisibile senza però essere davvero sola. Diciamo che mi sento “nascosta in vista”: mi piace mantenere una certa distanza dal mondo, ma provo anche piacere a farne parte, per lo più osservando in silenzio. Fatico a sottrarmi all’introspezione, ma nemmeno voglio rinunciare alla connessione sociale e umana.
Da cosa dipende la scelta di sedersi in un posto invece che in un altro?
Ma basta parlare di me, sono solo un caso statisticamente irrilevante. Piuttosto penso sia interessante capire se questi impulsi siano condivisi o del tutto individuali. Perché alcune persone desiderano il conforto di un angolo più di altre? Da cosa può essere motivata la scelta di sedersi in un posto preciso, come un lato specifico del tavolo o un punto particolare in una stanza? È un comportamento universale o dipende da fattori personali e culturali? «La risposta sta nella teoria della Prospect and Refuge di Appleton» spiega l’esperta Silvia Ruffilli. «Come mammiferi diurni, abbiamo due bisogni psicologici innati: sicurezza e controllo. I nostri antenati si rifugiavano nelle caverne, dal cui fondo nessuno poteva arrivare, e da lì tenevano d’occhio l’ingresso. L’amigdala, la nostra centralina del pericolo, funziona ancora secondo quegli schemi e non sa che oggi viviamo in appartamenti o uffici moderni. Quindi, in qualsiasi ambiente entriamo, mappiamo in pochi secondi le vie di fuga e gli angoli protetti». È il motivo per cui ci sentiamo più a nostro agio seduti con una parete alle spalle, o in un angolo, da cui possiamo vedere il resto della stanza. È una risposta primitiva, ma ancora potentissima.

Sedersi nell’angolo, e altri rifugi emotivi
Gli spazi possono diventare rifugi emotivi oltre che concreti, e il concetto di “comfort zone” non è solo una metafora. C’è chi cerca il conforto fisico ed emotivo di un luogo ristretto, chi trova se stesso in spazi piccoli, accoglienti o intimi, proprio come un angolo. Aggiunge Silvia Ruffilli: «Quando ci troviamo in uno spazio dove i bisogni di sicurezza e controllo sono soddisfatti, il corpo si rilassa: si attiva una risposta di distensione, il cosiddetto “riposa e digerisci”, e iniziamo a produrre ormoni del benessere come serotonina e ossitocina. Questo stato ci porta a essere più inclini a comportamenti empatici, di connessione, ascolto e dialogo». Tuttavia, è anche vero che “sentirsi messi all’angolo” può evocare sensazioni opposte: ci si può sentire svalutati, invisibili, intrappolati. «Questo dipende dal bagaglio personale e dalle esperienze individuali, ma per lo più da altri fattori ambientali come affollamento, rumore, invasione dello spazio personale» conclude l’esperta.

«Secondo l’approccio dell’architettura umanistica, gli spazi curano. E sono già intrinsecamente essi stessi fattori di rimodulazione dei comportamenti e di regolazione emotiva. Quando facciamo fatica a lavorare su noi stessi, ecco che lo spazio viene in aiuto». Ripenso allora a me, alla forza centrifuga e a ciò che mi accomuna a Penelope Featherington. A volte desidero essere parte del mondo che gira, a volte desidero un cantuccio in cui sostare e dal quale, semplicemente, osservare. Essere presente senza essere travolta. Forse il vero comfort non sta nell’open space, ma in un piccolo angolo, incontro di due linee di vita che induce a cambiare direzione, rimettere la palla in campo, spostarsi per non essere ciechi. Non è un capriccio architettonico, ma una questione di sopravvivenza emotiva.