Una domenica di sole, in questi mesi invernali, sembra un regalo inaspettato. Per molti, invece, è la causa scatenante del sunshine guilt, termine diventato virale dopo che l’influencer Renee Reina ne ha parlato in un video: letteralmente “colpa da sole”, indica la paura che, oziando a casa, si perdano le esperienze tipiche di una bella giornata, come una corsa nel parco o un giro in bici in città. Così, non solo non si riesce del tutto a riposare, ma ci si sente inadeguati, perché non ci si conforma all’ingiunzione sociale di essere sempre “produttivi”, sfruttando al meglio tutte le occasioni. E allora viene da chiedersi: il senso di colpa è un bene perché ci sprona a vincere la pigrizia o un male perché non ci dà mai tregua?

A cosa serve il senso di colpa

«Il senso di colpa fa male, ma non è un’emozione “cattiva”, perché ci spinge a comportarci bene» distingue Daniel Sznycer, psicologo sociale all’Università di Montreal. «Quando agiamo in un modo di cui non siamo fieri, il cervello ci trasmette un segnale per modificare la nostra condotta». Questo messaggio non è innato, bensì culturale: non a caso il senso di colpa si sviluppa a partire dai 4 anni, quando cioè iniziamo a interiorizzare le norme di comportamento stabilite dai nostri genitori o dal gruppo di appartenenza. D’altra parte, il fatto che si leghi a una legge esterna è ciò che lo ha reso funzionale all’evoluzione umana. Nelle antiche società di raccoglitori si doveva contare gli uni sugli altri per sopravvivere a malattie, predatori e periodi di scarsità agricola. Ignorare le norme che imponevano di curarsi del prossimo equivaleva a una condanna a morte: nessuno si sarebbe preso cura del trasgressore.

È diverso dalla vergogna?

Tuttora, come narra il romanzo di Martina Pucciarelli Il Dio che hai scelto per me, in uscita il 21 gennaio per Harper Collins, rifiutare le regole del proprio gruppo – fosse pure una comunità religiosa come nel caso dell’autrice – significa perdere tutto, diventare un reietto. Di qui il ruolo del senso di colpa, che rileva il possibile danno e intraprende azioni correttive. Allo stesso modo, la vergogna ci “avverte” quando agiamo in modi che possono indurre gli altri a svalutarci e a non venirci più in aiuto. Ma tra le due emozioni c’è una differenza: il senso di colpa può verificarsi senza che nessuno sappia cosa abbiamo fatto; nel caso della vergogna l’attenzione è incentrata sul fatto che qualcuno scopra la nostra mancanza.

Un saggio interessante che indaga il senso di colpa

Se l’evoluzione spiega le ragioni psicologiche e sociali alla base di questo meccanismo, resta una domanda: perché ci sentiamo in colpa anche quando non dovremmo? Se lo è chiesto la giornalista franco-svizzera Mona Chollet nel saggio Resistere alla colpevolizzazione (per ora uscito solo Oltralpe per La Découverte) a cominciare da ciò che è successo a lei. Nel 2019, quando il successo europeo del suo libro Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #MeToo (Utet) le ha regalato la libertà di «una vita senza vincoli, senza orari, facendo solo le cose che amavo», si è ritrovata schiacciata dall’idea di non lavorare abbastanza. Ed è diventata la peggior nemica di se stessa.

Dopo aver compiuto un percorso psicologico per sopprimere il mio tiranno interiore, quando sento la voce nella mia testa che mi rimprovera, la disinnesco dicendomi: Ti incolpi per questo, ma se facessi il contrario, ti incolperesti per altre ragioni.

Lo dice la scienza: noi donne ci sentiamo più spesso in colpa

La novità del libro di Mona Chollet sta nel dichiarare che a vessarci non è una parte intima di noi, di derivazione familiare, ma una struttura di potere che per dominare su alcune categorie di persone – tra cui le donne – impone loro modelli di comportamento soffocanti che alimentano i sensi di colpa. In effetti, uno studio pubblicato sullo Spanish Journal of Psychology, condotto su 3 gruppi di età diverse, ha evidenziato come il senso di colpa prediliga il genere femminile, che lo accusa molto più di quello maschile. L’intensità dei punteggi è massima tra i 40 e i 50 anni, ma anche le adolescenti e le giovani sono decisamente più inclini a sentirsi in colpa rispetto ai coetanei.

Perché succede?

Secondo la curatrice dell’indagine, il motivo starebbe nel tipo di educazione cui siamo soggette: all’apparenza ha perduto molti tabù, ma nei fatti risente ancora di stereotipi tipici della società patriarcale. Lo conferma Chiara Volpato, docente di psicologia sociale e autrice di Psicosociologia del maschilismo (Laterza, 2022), che ha riscontrato la profondità del senso di colpa femminile perfino laddove non ha motivo di esistere: tra le vittime di molestie. Da curatrice di Raccontare le molestie sessuali (Rosenberg & Sellier), che nel 2023 ha raccolto le testimonianze di circa 3.000 studentesse e lavoratrici dell’università di Milano Bicocca, ha verificato come le donne molestate si sentano automaticamente in colpa, pur realizzando di non aver fatto nulla per esporsi a una situazione sgradevole.

Il senso di colpa delle donne ha radici lontane

Questa costante autocolpevolizzazione delle donne ha radici lontane, secondo Chollet. Il Cristianesimo sarebbe stato diverso se non fosse stato per Sant’Agostino, che ha fatto del peccato originale, provocato dalla mela di Eva, un dogma ufficiale della Chiesa dopo 5 secoli in cui non era stato un tema centrale. Ciò ha rafforzato l’idea che gli esseri umani, e le donne in particolare, non possedessero la capacità di governarsi e provocato secoli di ossessione intorno all’esame di coscienza e alla confessione obbligatoria.

Un difficile equilibrio

Su questa base si è poi innestato uno squilibrio storico di potere: per dominare gli altri gruppi sociali i maschi bianchi hanno esacerbato il loro senso di colpa moltiplicando le norme cui obbedire. Al punto che oggi le donne sono lacerate tra intimazioni opposte: possiamo essere femministe e ricorrere alla chirurgia estetica? Ritenerci ambientaliste e volare due volte l’anno? Se lavoriamo, educhiamo i nostri figli all’autonomia o li priviamo di un’attenzione necessaria a una crescita equilibrata?

Ma il senso di colpa è utile?

Facendo leva su queste contraddizioni, Chollet si spinge a bollare «il senso di colpa come un sentimento sterile, che non produce valore per nessuno». Volpato ritiene invece che, in una certa misura, sia utile per evitare comportamenti egoistici e indurci a verificare la coerenza tra i nostri principi e le nostre azioni. Al contempo serve però più consapevolezza dei meccanismi che lo scatenano.

Se riscontriamo che alla base del nostro tormento ci sono pregiudizi o valori in cui non ci rispecchiamo verrà più facile annullare il rimorso per azioni che nulla hanno di sbagliato

Dovremmo così progressivamente guardare al nostro continuo senso di colpa con il distacco con cui si osserva un vecchio orologio: un meccanismo che appartiene a un passato ormai tramontato mentre noi ci avviamo verso un orizzonte più luminoso. Alla faccia del sunshine guilt.

Nella nostra società il senso di colpa è scomparso

Mentre a livello personale siamo spesso travolti dal senso di colpa, la società intera pare averlo cancellato. Nessuno, infatti, sembra assumersi più la responsabilità delle proprie azioni: i brutti voti a scuola sono colpa dei professori, la maleducazione della perdita del senso di autorità, la disonestà del sistema che non premia i corretti. «Più che di cancellazione, io parlerei di rimozione, qualcosa cioè che non viene eliminato ma ricacciato nell’inconscio, e che tuttavia, anche se sottotraccia, continua a esistere in quanto segno di una coscienza morale» precisa Maurizio Canosa, docente di Filosofia e autore di Etica del rimorso (Altrimedia).

Questa rimozione della colpa avviene perché «la società del cosiddetto “benessere”, che ha come scopo prioritario quello di rimuovere il dolore in ogni sua forma e promuovere il piacere a tutti i costi, non può che considerare il senso di colpa come una minaccia

Perché scarichiamo le responsabilità sul mondo esterno

E dunque, se un tempo nasceva da una relazione con qualcosa fuori da sé, cioè dalla consapevolezza di aver fatto del male a qualcuno o dalla trasgressione dei comandamenti interiorizzati di un’autorità morale esterna, oggi il senso di colpa «di gran lunga più diffuso nella nostra civiltà competitiva, individualistica e per lo più votata all’efficienza è quello per non essere stati all’altezza degli standard che vediamo dovunque». Gli obiettivi di performance elevati che la società impone, prosegue Canosa, «possono generare in noi due reazioni differenti in caso di fallimento: dare la colpa del risultato a se stessi per la propria inadeguatezza o – in modo meno doloroso – scaricare le responsabilità sul mondo esterno».

La realtà è fatta di “cose”

Se dunque tutto dipende da noi e non più da limiti esteriori, è naturale negare di avere delle colpe, per sopravvivere e poter continuare a inseguire gli obiettivi propugnati sui media e sui social. Al contempo, adesso che si sono moltiplicati i filtri e gli schermi che ci permettono di distanziare da noi la realtà, «una strage in Ucraina o in Medio Oriente provoca in molti di noi lo stesso effetto emotivo di un reality show». Di qui il distanziamento e la trasformazione della realtà, e quindi di eventi e persone, in puro oggetto di visione, in “cose” senza un corpo e senza un’anima.

E se una persona o un evento non vengono percepiti come qualcosa di reale, in che modo si può provare non dico un senso di colpa ma almeno un minimo di empatia nei loro confronti?