Stress da lavoro: la storia di Cristina
Parlare con Cristina, 48 anni, di Como, non è facile. La nostra chiacchierata inizia con questa frase: «Mi vergogno» (e per questo chiede di usare un nome di fantasia). Di cosa, non mi è subito chiaro. Lo scopro mentre lei, con le mani che le tremano, racconta quello che ha vissuto negli ultimi anni. «Nell’azienda in cui lavoravo si sentivano slogan magnifici come “Le persone al centro”, ma di fatto faceva carriera chi si sacrificava di più. Se provavi a fare degli orari normali, difficilmente venivi premiato. E non era nemmeno così semplice riuscirci, per un meccanismo malato: quando i tuoi colleghi accettano certe dinamiche “iperlavoriste” diventa difficile tirarsene fuori. E infatti io, con un contratto part time di 25 ore come segretaria, ne lavoravo almeno 42» spiega. «Sono arrivata al punto in cui non dormivo più: sul mio comodino, accanto ai sonniferi che mi aveva prescritto il medico di base, avevo il computer per controllare la mail aziendale anche di notte. Avevo l’ansia costante che il mio rendimento non fosse all’altezza, anche perché il contratto veniva rinnovato semestralmente».
Il burnout lavorativo impatta sulla vita di tutti i giorni
Le giornate lavorative di Cristina durano mediamente 8-10 dieci ore, un fluire ininterrotto di chiamate, messaggi e mail. E lei entra in una spirale per cui, una volta tornata a casa, invece di stare con i figli o uscire con le amiche, vuole solo portarsi avanti con il lavoro arretrato. «In questi ultimi 3 anni sono rimasta indietro con la vita, sono passata per dermatiti devastanti, mi grattavo ovunque fino a scorticarmi la pelle, gastriti, notti insonni e ho preso più di 10 chili. Ricordo un giorno in particolare: avevo tantissime cose da fare, non avevo il tempo di farle ma soprattutto mi sembrava di farle male, di non essere più capace. Sono corsa fuori e sono scoppiata a piangere». Cristina non ce la fa più, è sfinita. Ed è lì che arriva la vergogna, la sensazione, e a volte la certezza, di non essere più all’altezza. Quel giorno lei capisce che c’è qualcosa che non va e decide di chiedere aiuto. Non più al suo medico curante, ma al Centro stress e disadattamento lavorativo del Policlinico di Milano.
Il lavoro, causa dello stress: parlano i dati
Lo conosci? Forse no, e magari non sei l’unica. Cerchiamo allora di capire insieme di cosa si occupa e come funziona, perché nella situazione di esaurimento di Cristina siamo in tantissimi: non a caso, nel 2019 l’Oms ha riconosciuto il burnout come sindrome. I numeri non lasciano dubbi: una persona su 2 in Italia dichiara di soffrire di ansia e insonnia per motivi legati al lavoro e lo stesso numero sperimenta condizioni di stress elevato che possono portare al burnout, secondo la ricerca del 2023 di Bva Doxa presentata da Mindwork.
Il percorso di cura per lo stress occupazionale
«Il nostro Centro al Policlinico di Milano nasce nel 1996, è stato il primo e a oggi, tra i pochi che ci sono in Italia, è il più grande» spiega Giovanna Castellini, dirigente psicologo e psicoterapeuta che da oltre 20 anni lavora qui. «Ogni anno vediamo circa 400 persone, ma le richieste che ci arrivano sono molte di più» spiega. Negli ultimi anni, complice la pandemia, anche 3 volte tanto, e i pazienti arrivano da tutta Italia. Le liste d’attesa non sono da meno: in media 6 mesi. «Per accedere serve una richiesta del medico di base per stress occupazionale, per intenderci la ricetta rossa, e bisogna chiamare il numero verde 800638638 per fissare la data della prima visita» spiega Castellini.
Il percorso, che di solito si articola in 2 mezze giornate e per cui si paga un ticket di 36 euro, comprende una visita medica completa, alcuni test psicodiagnostici (di personalità, cognitivi e proiettivi), un colloquio con lo psicologo e una relazione finale. «Se lo riteniamo necessario, facciamo fare al paziente anche un incontro con lo psichiatra» precisa l’esperta. «La terapia che di solito consigliamo è la presa in carico presso lo specialista psichiatra del Cps (Centro psico-sociale, ndr) di residenza, anche al fine di garantire un ottimale monitoraggio della terapia psicofarmacologica e l’inizio di un percorso di psicoterapia ad hoc per imparare a gestire il disagio sul lavoro». Dopo 8-9 mesi si viene richiamati per un follow up (per cui è necessario pagare un altro ticket, sempre di 36 euro) per capire se il paziente sta meglio.
Chi sviluppa di più lo stress da lavoro?
Domando a Giovanna Castellini chi è che chiede il loro aiuto. «Sono persone con un malessere profondo, che spesso si sono già rivolte al proprio medico di base o a uno psicologo; sono donne e uomini nella stessa percentuale; hanno un’età che va dai 49 ai 60 anni e come tipologia di impiego c’è davvero di tutto: dall’operaio in fabbrica al dirigente scolastico, dall’impiegato in Comune al responsabile commerciale di un’azienda. Difficile vedere liberi professionisti, sono quasi tutti dipendenti». L’identikit è chiaro, ben delineato e, come conferma la dottoressa, più o meno lo stesso da sempre. Quello che ci salta agli occhi è che dalla platea mancano completamente i giovani. «Non ne vediamo quasi mai. I motivi a mio avviso sono molteplici e legati ai cambiamenti sociali: entrano più tardi nel mondo del lavoro, sono disincantati – ovvero tra contratti volanti, Partite Iva, stage non retribuiti, non si aspettano molto – e soprattutto sono più “sgamati”, ovvero riescono sul lavoro a salvaguardare meglio il loro benessere mentale. O almeno ci provano».
I sintomi del burnout lavorativo
Quello che, purtroppo, Cristina non è riuscita a fare. E che l’ha portata all’esaurimento. Ma quali sono i campanelli d’allarme che dovrebbero farci alzare le antenne e provare, se si è ancora in tempo, a rallentare? «Il primo sintomo ad arrivare e l’ultimo ad andare via è il disturbo del sonno» spiega Giovanna Castellini. «Non riesci ad addormentarti perché il cervello ti tiene attivo, dormi 2 ore perché sei sfinito ma poi ti svegli di soprassalto nel cuore della notte e inizi a pensare». Sono tutti sintomi che, se si protraggono nel tempo, ovvero per almeno un paio di settimane, dovrebbero preoccuparci. Poi, in un ordine che ovviamente non è per tutti uguale, ci sono l’ansia che si può somatizzare dando come effetti tachicardia, mal di stomaco, mal di testa, dermatiti, e la stanchezza cronica, immotivata. «Quella fiacca che ti blocca, che non ti permette di fare niente, che ti toglie la forza di uscire, di preparare la cena per i tuoi figli» racconta Cristina. E infine arrivano gli sbalzi di umore, le crisi di pianto che non riesci a fermare, la tristezza e la vergogna.
Eccola che torna, puntuale come un orologio. «Sì, mi vergognavo. Sentivo di non essere più capace a fare quello in cui credevo di essere brava, mi sentivo sola, incompresa, non ne parlavo né in ufficio né tantomeno a casa o con le amiche. Avevo paura di essere etichettata come una scansafatiche». Per la prima volta durante la nostra chiacchierata Cristina, quando parla delle sue emozioni, usa il passato. Perché quelle sensazioni per fortuna non le prova più: si è fatta aiutare, ha trovato un nuovo lavoro e soprattutto l’autostima che aveva perso.
Nel resto d’Italia
Nella ASL Roma 3, presso il Poliambulatorio di via Casal Bernocchi 61 (zona Acilia), è attivo il Centro clinico per la valutazione del disagio lavorativo.
Nell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana c’è il Centro di studio per il benessere lavorativo e del disagio psichico di origine lavorativa.
All’Ospedale San Gerardo di Monza, all’interno del reparto di Medicina del lavoro, c’è un Centro che si occupa di benessere psicologico sul lavoro.