È giovedì sera. Siamo una ventina. Sdraiati per terra inermi, i piedi scalzi, le luci soffuse, l’incenso che brucia. L’insegnante si muove lieve tra i nostri tappetini. E dice cose che dovrebbero favorire il nostro abbandono: «Lasciate andare tutto. Sentite il peso del vostro corpo. Rilassate ogni muscolo. Separate le arcate dentali». Siamo nella posizione del cadavere, l’ultima della pratica yoga, e io sto digrignando i denti. Ma non solo: vorrei grattarmi il naso, sgranchirmi le gambe, spegnere quel maledetto incenso odoroso, aprire le finestre, recuperare il cellulare, scappare da qui, da questo tappetino che mi inchioda a stare con me stessa e con i miei pensieri. «Svuotate la mente» sussurra l’insegnante che, guarda caso, mi staziona accanto. Facile per lei che ha il corpo di una dea, la leggerezza di una piuma e l’età dell’incoscienza. Facile per lei che non ha i pensieri intrusivi di chi vive dentro un panino, schiacciata tra due generazioni egualmente bisognose ed esigenti.

La mia mente somiglia all’appartamento di un accumulatore seriale che stipa cose ovunque fino a quando non c’è più spazio nemmeno per respirare e i vicini chiamano la Asl.

“Staccare”, una vita al tappetino

Mio marito è all’estero da una settimana e ho dimenticato la data del suo ritorno, sempre che intenda tornare. Il figlio grande ha preso un pugno in te sta durante l’allenamento di boxe e, nell’ipocondria dei suoi vent’anni, è convinto che le funzioni cerebrali siano state compromesse. Non c’è alcuna evidenza empirica ma lui mi telefona a intervalli regolari per condividere l’ansia («Mamma, ho pensato che vado al pronto soccorso», «Mamma, ho mangiato mezzo chilo di pasta con il gorgonzola e ora mi gira la testa. Devo fare una tac?»). Il medio ha preso troppe insufficienze e a giugno ha la maturità. Il piccolo, con i suoi amici coatti quanto lui, vuole fare un ordine di vestiti e accessori contraffatti dalla Cina e farlo arrivare a casa nostra («No», «Tranquilla, Cla. Uso i miei soldi», «Non è questione di soldi ma di legalità», «Rovini sempre tutto, ma io non mi arrendo»).

Viviamo dentro un panino, ma non siamo sole

Mia madre, per una serie di incresciose vicissitudini, è stata inghiottita dalla burocrazia e ha bisogno di essere assistita, aiutata e accudita. Da chi? Da me che sono la sua unica figlia. Intanto uno sconosciuto di notte si è introdotto nella mia auto, già incidentata. Ha lasciato un gran caos e si è portato via la ruota di scorta. Il medico mi ha prescritto gli esami del sangue sei mesi fa e ancora non sono riuscita a farli. Incombono anche mammografia e pap test.

Nel frattempo dovrei anche lavorare, mandare avanti una casa e, secondo la mia insegnante di yoga, rilassarmi nella posizione del cadavere. Accanto a me, una donna, mia coetanea, fa un lungo sospiro. Sbuffa, si alza, arrotola il suo tappetino e se ne va scuotendo la testa. Nella sua insofferenza riconosco la mia. Anche lei probabilmente vive dentro un panino. Non siamo sole.