Superare un lutto: come trasformare il dolore di una perdita
Saper gestire le proprie emozioni, riconoscere e decodificare ciò che sentiamo costituisce un allenamento da praticare fin da piccoli.
Letture sul tema, ascolto consapevole e meditazione possono aiutare il lavoro su di sé, perché permettono di creare il silenzio interiore necessario per esplorare se stessi.
In lingua latina la parola lutto rimanda all’etimologia legata al pianto e, in effetti, l’atto del piangere costituisce una manifestazione tipica del dolore: una tristezza profonda, che consuma dall’interno.
«La vita umana comincia con la nascita e termina con la morte» scriveva il filosofo Vladimir Jankélévitch, professore di Filosofia Morale alla Sorbona di Parigi dal 1951 al ’77. Rispetto alla questione della fisicità, spiega: «Del mio corpo – grazie al quale sono qui presente, attraverso il quale parlo, esisto, vivo; ma che allo stesso tempo m’impedisce di essere altrove, mi mette alla mercé delle malattie e di tutte le miserie di cui il corpo è la sorgente».
La dott.ssa Elisabetta Razzaboni, da anni impegnata nella ricerca, si occupa di psico-oncologia e counseling oncogenetico. «Il benessere del paziente è un percorso alla ricerca di un equilibrio che non c’è» spiega l’esperta «si lavora sull’adesso, cercando di rispondere alla domanda: che cosa posso fare, ogni giorno, per stare meglio?».
Esistono due livelli differenti di intervento, uno indirizzato al malato e, su un altro piano, il discorso della famiglia.
Acquisire la consapevolezza della malattia
La malattia, infatti, rappresenta uno sconvolgimento paragonabile a un terremoto, spiega Elisabetta con una metafora di grande impatto, ecco perché dobbiamo imparare a salvare il valore di ciò che c’è e vivere di nuovo, alla luce di un cambiamento in grado di agire anche sui nostri schemi mentali.
«La malattia non colpisce solo chi è anziano, ma interessa tutti, indistintamente: donne giovani, madri con bambini» spiega l’esperta: «Una diagnosi oncologica è un fulmine a ciel sereno. Essa separa un prima e un dopo, vissuto come interrogativo inquietante, frattura traumatica».
Il senso di solitudine è doppio. Da una parte, il malato, costretto ad affrontare uno sconvolgimento a cui corrisponde dolore fisico, ansia verso un corpo che non sembra più rispondere alle regole, perdita del lavoro e degli obiettivi.
Dall’altra parte, separati da un confine che in fondo è quello di chi sta per consegnarsi alla vita, o alla morte, si trovano gli amici, il compagno o la compagna di vita, i parenti.
L’assenza o il rapido superamento della sofferenza causata dalla perdita sarebbe una pretesa assurda, inumana.
Elisabetta Razzaboni: «Il lutto rappresenta una condizione fisiologica, in cui l’essere umano si trova nella condizione, naturale, di dover affrontare un momento di sofferenza intervenuto dopo la perdita di una persona cara. Quello su cui si lavora è la mancata elaborazione del lutto, ovvero la persistenza di certi stati emotivi».
Che cosa può aiutare l’elaborazione del lutto
Il senso di profondo abbandono e la sofferenza per la perdita costituiscono esperienze non facili da affrontare, capaci di condannare chi rimane a una sofferenza implacabile.
Non dimenticare il diritto al proprio benessere
Il primo passo per attuare un lavoro su di sé? «Ritrovare la propria centratura» chiarisce Elisabetta Razzaboni «Anche durante la fase terminale di malattia non dobbiamo dimenticare il diritto di sentirci bene, nonostante tutto, cercando ciò che che è in grado di migliorare la nostra qualità di vita».
«Sicuramente il percorso di accettazione della perdita, ritrovare e ricostruire un equilibrio, darsi tempo, ha bisogno di fattori protettivi quali la rete sociale ed il supporto psicologico, oltre alla capacità di trasformare il legame che si aveva con la persona in insegnamenti ricevuti, valori trasmessi per darne un senso di continuità».
L’attività fisica, insieme alla possibilità di parlare di sé contribuiscono a sciogliere ansia e inquietudine.
Camminare all’aria aperta risveglia le endorfine e, come evidenziano gli studi, pacifica la mente. Di fronte al mistero dei cicli della natura nascita e morte appaiono in una nuova luce, come parte di un cerchio sacro in cui inizio e fine trovano una miracolosa congiunzione.
Lavorare sulle emozioni ed elaborare il dolore
Sperimentare la sofferenza è un percorso naturale, parte dell’esperienza umana. Come ricorda l’esperta, il problema subentra quando essa non riesce a placarsi, ecco perché trovare modalità per esprimere il proprio dolore può costituire uno strumento prezioso per affrontare quello che nella nostra società è un vero e proprio tabù: il discorso sulla morte.
Leggere libri, partecipare a gruppi di discussione, parlare della malattia e confrontarsi con figure di riferimento non solo aiuta a fare chiarezza, ma permette di elaborare il complesso groviglio di emozioni che appesantisce l’anima e che, in certi momenti, rischia di attirare verso un abisso oscuro, fatto di non detto e di sensazioni bloccate per paura di esprimere il vuoto esistenziale.
Il vuoto, l’assenza di senso, ansia e paura sono questioni che ognuno di noi è destinato a sentir affiorare: possiamo scegliere se tuffarci nell’ignoto e ascoltare il loro messaggio, oppure chiuderle dietro a una porta. Cercare di eliminare ciò che ci turba senza accettare di vedere questi processi rischia di amplificare attacchi di panico, ansia e inquietudine: il dolore ha bisogno di essere elaborato. Con amore, pazienza e senza dimenticare il giusto supporto.
Ricostruire il senso della vita
«Dagli ultimi studi sul tema emerge il valore trasformativo dell’esperienza di malattia» sottolinea la dott. Elisabetta Razzaboni: «Chi ha affrontato questo percorso con consapevolezza può aver visto un significativo miglioramento della qualità di vita».
La malattia diventa occasione per fermarsi, cambiare, fare pulizia e persino ritrovare forza, eliminando situazioni e legami velenosi. Ritrovare il senso non significa cercare il significato nel perché la malattia o il lutto siano accaduti proprio a me o a una certa persona, ma semplicemente chiedersi che cosa è possibile imparare da questa esperienza.
Ricorda Vladimir Jankélévitch: «La morte non solo ci impedisce di vivere, limita la vita, e poi un bel giorno l’accorcia; ma la tempo stesso comprendiamo che senza la morte l’uomo non sarebbe un uomo, che proprio la presenza latente della morte fa le grandi esistenze conferendo loro il fervore, l’ardore, il tono specifici. Si può dire, quindi, che ciò che non muore non vive. Sicché preferisco essere ciò che sono: condannato a qualche decennio soltanto, ma… aver vissuto!».