
Andy Warhol affascina sempre. Tanto che sono ben tre le mostre in cui, questa estate, possiamo ammirare le sue opere: a Trento (fino al 16 settembre, www.zanettiarte.com), a Roma (fino al 9 settembre, www.gnam.beniculturali.it) e a Otranto (fino al 30 settembre, www.warholotranto.it). Il re della famosa Pop art, per caso e per talento, aveva capito bene come era il nostro mondo. In verità a lui interessava solo il suo. Ma per quelle strane coincidenze della vita il suo mondo a poco a poco è andato a coincidere con quello in generale, fatto principalmente di superficie e di immagini. Dante avrebbe messo Warhol in un girone dell’inferno dedicato ai superficiali, persone che si guardano sempre allo specchio ma per punizione possono vedere solo il retro delle proprie teste, in modo simile a quando i barbieri vogliono farti ammirare come ti hanno tagliato bene i capelli.

La storia più recente dell’arte lo colloca invece in paradiso, vicino a Picasso. Una posizione giustificata e meritata. Perché Warhol, al pari di Picasso, è un marchio, un’icona. Due artisti che ci possiamo godere anche con un bel poster, non è necessario dover sborsare milioni di euro per una loro opera. Ma mentre Picasso ha fatto dipinti che sono diventati poster, Warhol è stato così geniale da trasformare i poster in quadri. Chi si lamenta di quanto l’arte contemporanea sia inaccessibile dovrebbe considerare con più attenzione quello che Andy Warhol ha saputo inventare, capendo che alla gente per sentirsi bene basta avere quello che hanno tutti gli altri. Per questo è il profeta dell’insicurezza umana. E avere fatto diventare la zuppa in scatola un’opera d’arte non vuol dire umiliare l’arte, ma trasformare la vita di ogni giorno in arte.

Warhol, a differenza di molti colleghi europei sempre pronti a guardare lo specchietto retrovisore della storia, ha vissuto dentro un eterno presente su una superficie senza confini, senza profondità, senza limiti. A lui la storia dell’arte non interessava, o almeno non tanto da doverci pensare su. Warhol è un artista al dente come gli spaghetti: si mangiano subito o scuociono e fanno schifo. Il suo studio era una fabbrica e si chiamava, appunto, Factory. Stava a New York nel cuore di Manhattan, a Union Square. Oggi davanti alla porta di quel palazzo c’è un monumento dedicato ad Andy in vetroresina argentata, accanto al quale le persone si fanno fotografare. Alla Factory di Warhol producevano di tutto e questo tutto lo hanno prodotto in un modo così stravolgente che è riuscito a entrare nella storia della contemporaneità.

I suoi film in 16 mm in bianco e nero, come Empire, dove si vede il famoso grattacielo Empire State Building per 24 ore di seguito, sono un esperimento geniale che riesce per la prima volta a tradurre lo scorrere del tempo in una sola immagine. Warhol utilizza un mezzo come il cinema che porta con sé il fluire dei giorni e degli anni e, quindi, il senso della vita. Lui ha sempre temuto il passare del tempo. La morte (e come dargli torto?) lo terrorizzava ed è stata spesso il soggetto della sua arte, per esempio nella serie dei “Car Crash” o delle “Electric Chair”. Per potere vincere questa paura considerava come uniche medicine il successo e la popolarità. E li ha proposti nei tantissimi ritratti di personaggi celebri, da Marilyn Monroe a Jackie Kennedy, a Elvis Presley, a Marlon Brando, a Liz Taylor, al dittatore cinese Mao.

Fama e morte Warhol le ha vissute molto da vicino. Nel 1968 una sua ammiratrice delusa, Valerie Solanas, gli spara nel suo studio mandandolo quasi all’altro mondo. Vivo per miracolo, Warhol rimane con l’ossessione di trovare un presente che non termini mai. Ricerca finita prima di quanto lui desideri. La paranoica fifa del dolore lo spinge a chiedere una dose esagerata di sedativi dopo un leggero intervento chirurgico che così, invece, si rivela letale. È il 1987: la sua arte ha forse ormai perso molto della genialità, ma il suo nome è già diventato mito. I diari che ha lasciato sono una confessione sconcertante di un personaggio talmente immerso nella superficialità dell’esistenza da offrirne un’immagine affascinante. Non bluf fava quando insisteva nel dire che, per conoscerlo, bastava guardare la sua opera o semplicemente lui, tutto stava lì sulla superficie, dietro il nulla.
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Pensare che fosse un idiota per queste affermazioni è azzardato. Anche perché, dichiarando che ognuno di noi avrebbe avuto 15 minuti di celebrità, aveva immaginato benissimo, con 40 anni d’anticipo, il destino che avremmo avuto con i social network tipo Facebook o Twitter. Se di Picasso si conoscono gli umori, le follie, le stravaganze e gli amori, di questo artista nato a Pittsburgh ma di origini polacche non si sa quasi nulla, o quello che si sa non è speciale. Warhol è l’America di provincia che diventa New York, il brutto anatroccolo che si trasforma in cigno, la timidezza congenita che appare mistero, l’occhio sperduto sul quale calano per sempre prima le lenti nere, poi gli spessi occhiali da vista. I 15 minuti di celebrità a propria disposizione lui ha saputo trasformarli in storia dell’arte. Pagare il biglietto per una sua mostra equivale a pagare molto poco un bravo psicanalista: anche stando zitta, qualche cosa sul nostro mondo esteriore la sua arte riuscirà sempre a dirci.