Una storia vera di stalking e abusi interpretata (magistralmente) da chi l’ha vissuta, l’attore Richard Gadd. Che in realtà continua, mettendo in scena se stesso, a ricercare la fama, il successo, la gratificazione narcisistica di essere notato, che poi è la miccia da cui tutto parte.

Baby Reindeer: la realtà supera la fantasia

Baby Reindeer, la serie Netflix che in poche settimane è stata vista da 22 milioni di persone, è un fenomeno di affezione, angoscia e curiosità, dove la realtà è più forte della fantasia, tanto è cupa e piena di contrasti, con nulla di salvifico, come solo certe vite traumatizzate possono essere. Vite con cui è impossibile non empatizzare, al punto che non sappiamo più chi è il buono e chi il cattivo tra Donny e Martha, chi ha sofferto di più e chi fa soffrire di più, e in questa ricerca ci perdiamo fino alla fine, confondendo i piani, la realtà e la finzione.

Il narcisismo della vera Martha

E ora che la vera protagonista della storia, Fionna Harvey (interpretata dalla bravissima Jessica Gunning), esce allo scoperto per essere intervistata dal giornalista Piers Morgan, la realtà si prende un altro bello spazio, irrompe sul palcoscenico della finzione e ci inchioda alle nostre domande: cosa è successo veramente tra i due? Chi ha fatto più male all’altro? Fiona May ha dichiarato «La vera vittima sono io» e ha smentito alcuni fatti riportati nella serie, che comunque – come ha sottolineato Richard Gadd – non vuole essere una ricostruzione fedelissima di quanto accaduto. Però l’avvocata della finzione è una vera avvocata nella vita (pure qui senza soldi), e minaccia di passare alle vie legali contro Gadd.

Baby Reindeer indaga la dipendenza affettiva

Chissà se sono minacce vere, ci chiediamo, o se Fiona è mossa solo dalla stessa spietata sete di attenzioni che l’ha fatta diventare una stalker per sei anni al punto di inondare Gadd di 41.071 email, 744 tweet e 350 ore di messaggi vocali. Di cui però lui (si chiama Donny, nella serie) rivela di avere un disperato bisogno. Perché? Perché quando la stalker smette di tormentarlo lui la cerca? È questo il segreto del successo di Baby Reindeer: indaga in modo crudo e veritiero, senza sconti per nessuno, i meccanismi di una relazione di dipendenza, dove la vittima non è solo vittima e il carnefice non è solo carnefice, come spiega la dottoressa Roberta Catania, psicologa forense e criminologa. «Quella tra la stalker e il suo oggetto di attenzioni è una relazione dove entrambi hanno bisogno dell’altro per affermare se stessi, per riconoscersi, in una ricerca della propria identità che non ha mai fine, tali sono le ferite che si portano dietro tutti e due: abusi subiti, scarse attenzioni dalle figure di accudimento, bassa autostima, senso di abbandono (ben reso da una Martha poco curata e con la ricrescita in testa), predispongono sia a diventare una vittima sia a trasformarsi in un persecutore. La vittima – che odia se stesso e non riesce ad essere felice – riceve l’attenzione di cui ha bisogno: quando qualcuno è ossessionato da noi, ha in testa solo noi, anche in modo patologico, vuol dire che ricopriamo un ruolo di successo nella sua vita. E questo riempie il nostro vuoto. La carnefice avverte questo vuoto, vede la ferita, si insinua in questo spazio e, dedicandosi all’altro, prima con lo sguardo, poi con le parole e quindi con comportamenti ossessivi, lo colma. Accudire (anche se in modo disfunzionale) e controllare l’altro, è un modo per accudire e controllare se stessa, quella bambina che non è stata amata».

La Piccola renna rappresenta il bisogno d’amore

Baby Reindeer dipendenza affettiva

La dipendenza affettiva quindi è di entrambi. «In queste relazioni, come ben delinea la serie, lui dipende dalle sensazioni che lei gli fa provare con la sue presenza ossessiva, lei dipende dal fatto di aver creduto di poter salvare quest’uomo» spiega la criminologa. «Per questo lui viene soprannominato Piccola renna: quel peluche salvifico che lei accarezzava da bambina rappresenta una speranza d’amore mai raggiunto, un bisogno che lei cerca di colmare». Da un lato quindi il bisogno di essere visti, dall’altro di essere salvati, creando un legame stabile che invece diventa molto pericoloso perché chi era vittima può trasformarsi in carnefice, e viceversa. Tant’è che adesso la vera Martha, confondendoci ancora una volta, dice: «La vera vittima sono io». Ma forse non lo sapremo mai chi è la vera vittima.

La dipendenza affettiva è come la dipendenza dalle sostanze

Baby Reindeer dipendenza affettiva

E non sapremo mai come andrà a finire. «Fa molto pensare che una vittima di abusi e di stalking metta in scena se stessa. Molto probabilmente l’attore, interpretando se stesso, continua ad alimentare il suo bisogno di essere visto, di avere successo, di trovare, infine, la propria identità» prosegue la dottoressa. «Un meccanismo duro a morire, come queste relazioni basate sui nostri vuoti profondi e su quelli dell’altro. I nuovi manuali addirittura inseriscono quella affettiva tra le dipendenze perché capace di attivare gli stessi meccanismi della dipendenza dalle sostanze e creare un legame difficile da scardinare. Non ci può essere lieto fine se uno dei due continua a odiare se stesso: come Gadd entra a capofitto nella relazione, senza proteggersi, proprio perché ne ha bisogno, così chi non ama se stesso continuerà a ricercare sempre chi colma questo vuoto, colmandone a sua volta un altro».