Cosa significa educazione ai sentimenti
Quando ho letto Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa, l’ultimo romanzo di Michela Marzano, in cui si affronta il tema del consenso, mi è rimasta impressa una frase di Anna, la protagonista: «A cosa si consente esattamente quando si acconsente a una relazione?». Nel libro è una domanda che si pone una persona adulta, ma è un quesito che andrebbe affrontato già nell’adolescenza. Quando ci si deve fermare? Come capire cosa provo io e quali sono i sentimenti di chi mi sta accanto? Cosa significa davvero rispetto?
Il nostro podcast sui sentimenti
È per rispondere a tutte queste domande che abbiamo realizzato il podcast That’s amore – Breve guida all’affettività, dedicato all’educazione affettiva dei ragazzi, che uscirà il 14 febbraio. Perché è proprio a quest’età che si iniziano a definire i confini di un rapporto sano, che non confonde la gelosia con il possesso, l’attrazione con l’abuso, il naturale desiderio di sentirsi amati con la gabbia del ricatto emotivo e del controllo. Per capire come imparare a riconoscere i propri sentimenti e ad amare in modo corretto, abbiamo chiesto l’aiuto dei ragazzi, perché sono loro i protagonisti di questa rivoluzione culturale, e di due esperti: Cristina Dell’Acqua, insegnante di greco e latino al Collegio San Carlo di Milano, docente all’Università Iulm e scrittrice (il suo ultimo libro è La formula di Socrate, Mondadori), e Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro.
I giovani soffrono di analfabetismo dei sentimenti
«Quando si ha a che fare con i giovani capita spesso di notare che negli adolescenti c’è una sorta di analfabetismo empatico. È come se una parte di loro, quella legata ai sentimenti, fosse “congelata”» spiega Cristina Dell’Acqua. Le cause? Il timore del giudizio degli altri e la paura di mettersi a nudo («Faccio fatica a capire chi sono, figurati a esprimere le mie emozioni! Se poi devo farlo con una ragazza, allora è un vero casino» dice Guglielmo, uno dei giovani protagonisti del podcast). «È per questo che c’è bisogno di un alfabeto emotivo con parole condivise dai ragazzi: quando si conoscono i vocaboli, allora si possono esprimere i propri sentimenti e capire quelli degli altri. Non riflettiamo mai abbastanza su quanto sia importante raggiungere la conoscenza di noi stessi prima di avventurarci in quella del mondo e su quanto sia fondamentale il nostro vocabolario per poterlo fare. Più andiamo a fondo, più abbiamo bisogno di parole precise, complesse, per esprimere desideri, paure e stati d’animo» continua Cristina Dell’Acqua.
La prima parola del vocabolario dei sentimenti
«La prima parola che mi piacerebbe inserire in questo vocabolario delle relazioni è “reciprocità”. Significa tante cose: rispetto dei tempi e delle distanze, amore, consapevolezza» suggerisce la docente. Di cosa? Che un no è un no e che un sì è un sì. Che i due di picche esistono, tutti li abbiamo presi, e vanno accettati. Bisogna far capire che esiste un diritto dell’altra persona a non essere toccata, a non essere abbracciata, perché manca il consenso. Ma che, nonostante ciò, quella persona rimane mia amica. Per iniziare a prendere confidenza con i propri sentimenti non servono per forza corsi didattici sull’affettività, spesso strumentalizzati dalla politica. «Basterebbe leggere e usare la letteratura, intesa come tutte le materie che si studiano. Perché se ogni professore, quando spiega, instaura un dialogo aperto e sincero con i ragazzi e lascia spazio ai commenti, loro si aprono, si raccontano, si confrontano. Proprio perché di mezzo c’è il filtro dello studio» conclude la professoressa.
Il ruolo dei genitori
Il compito di insegnare l’alfabeto dei sentimenti spetta anche ai genitori. «Per poterlo spiegare ai nostri figli, però, dobbiamo prima alfabetizzare noi stessi. Dobbiamo imparare cioè a pensare alle emozioni, a dare loro voce, a tollerarle, anche se sono negative, come la rabbia, la delusione, la tristezza, la paura» commenta lo psicoterapeuta Matteo Lancini. Solo così, infatti, potremmo essere d’esempio ai ragazzi e lasciarli liberi di raccontarsi per quello che sono, per quello che provano. «Credo che oggi il tema centrale sia portare all’attenzione dei giovani nuove riflessioni, non solo sull’educazione alla parità di genere, al possesso e al tema di un patriarcato ancora presente, ma su un argomento più ampio che riguarda la dimensione della coppia, compresa la sua fine» dice Lancini.
E se si educasse alla fine di una storia d’amore?
Cioè? «Siamo cresciuti in una cultura in cui il vincolo di una relazione era molto forte, ora invece la società è più complessa e fluida. E la fine di un rapporto, soprattutto nell’adolescenza, può essere fonte di grande sofferenza. Quando qualcuno a cui ti eri affidato e che ti faceva stare bene distoglie lo sguardo e dice che è finita, si prova un dolore fortissimo, spesso ingestibile. Oggi, infatti, non conta fare sesso ma vivere nella mente dell’altro. Quando questo vincolo viene meno, se non si ha un nucleo identitario forte, è come se si perdesse tutto, disperandosi. Per questo sarebbe fondamentale introdurre un tipo di educazione dei sentimenti diversa, sulla fine del legame di coppia, sulla gestione di quell’addio». Per darsi un tempo per una buona fine, per trovare insieme il significato di quel percorso che si è fatto in due, evitando così di chiudere con il classico (e dolorosissimo) “Non mi chiamare mai più!”».