Gimbo Tamberi aveva gli occhi lucidi quando ha parlato della rottura col padre davanti alle telecamere di Belve. E non importa se le domande fossero state concordate: rimestare nel dolore fa sempre male, anche se te lo aspetti, anche se quel dolore è antico, anche se l’hai sepolto. Perché quel dolore non viaggia da solo: si allarga a macchia d’olio e nel tempo contamina tutta la tua vita, il tuo senso di famiglia, il tuo sentirti amato e il tuo stare nel mondo.

Gimbo Tamberi e la libertà di scegliere di un figlio

«Tutti vorremmo dei genitori da amare e vorremmo poter essere felici del rapporto che abbiamo con loro. Ma negli ultimi due anni senza avere rapporti con mio padre, sono stato più sereno» ha detto, tra le altre cose, Gimbo. Fly or die, il suo motto, ci riecheggia nel cuore. E così noi tutti, genitori, sentiamo un groppo che arriva fin su alla gola e ci chiediamo se anche i nostri figli, un giorno, potrebbero mai arrivare a dirci questo: «Sto meglio se non ti vedo». A questo punto passiamo velocemente in rassegna il nostro, di rapporto, e ci confortiamo perché noi, in fondo, i nostri figli li abbiamo lasciati liberi di scegliere, di essere se stessi, di prendere una strada diversa da quella che avremmo voluto. Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo così sicuri di non essere o non essere stati come il padre di Gimbo, che l’ha spinto a scegliere in modo esclusivo il salto in alto, quando lui avrebbe preferito il basket, magari senza diventare quello che è diventato? Siamo sicuri di non aver voluto anche noi che i nostri ragazzi seguissero una scia già segnata, come Tamberi con dietro l’eredità da campioni del nonno e dello zio? 

Tutti i genitori hanno delle aspettative

«Tutti i genitori, in modo più o meno consapevole, più o meno incisivo, fanno vivere ai loro figli un carico di aspettative enormi, che compensino le lacune lasciate dai loro desideri non soddisfatti, dai progetti non realizzati, dalle aspettative che a loro volta i genitori avevano su di loro» spiega Marco Inghilleri, psicoterapeuta e psicologo dello sport, direttore del Centro di Psicologia giuridica, Sessuologia clinica e Psicoterapia di Padova. «Il problema è di chiunque e delle nostre eredità, che non abbiamo potuto rifiutare, come accade con i testamenti: nasciamo già preordinati, con una faccia e una famiglia che non ci siamo scelti. La nostra strada insomma è già decisa, quindi l’unica libertà che abbiamo per cercare di realizzare gli esseri umani che siamo, è dar vita a un piccolo deragliamento». 

Gimbo Tamberi è diventato grande

E Gimbo ora ha deragliato. È diventato definitivamente grande. «Si cerca un padre per restare figli, si uccide un padre per diventare adulti. È un rito di passaggio obbligato quello di staccarsi dalle aspettative familiari, ma ciò che accade nel migliore dei casi in modo naturale, a volte invece si esprime in modo traumatico. Gimbo Tamberi ha vinto l’impossibile e avrebbe vinto lo stesso: il problema è che il padre ha cercato di dare lui forma al figlio mentre nella realtà lo scopo di un genitore è comprendere le attitudini di un figlio, dargli gli strumenti per realizzare se stesso e accompagnarlo verso questa crescita, ma senza creare imposizioni».

Il ricatto d’amore di un padre verso il figlio

Quello del genitore verso il figlio, è un ricatto che spesso si verifica nei rapporti d’amore, quando ci si trova obbligati a fare qualcosa per non scontentare l’altro: genitore, moglie, marito, figli: «Se mi ami allora devi fare questo ed essere così». «Quando Gimbo Tamberi dice che si è sentito tradito dalla figura del genitore, vuole farci capire che si è trovato nel dramma di dover scegliere se restare fedele a se stesso rischiando di perdere l’amore del padre, oppure negarsi per assecondare le sue aspettative» spiega Inghilleri. Un dramma psicologico, emotivo e affettivo, che crea sofferenza emotiva e anche fisica. 

Un padre non può essere anche allenatore o datore di lavoro

Un anno fa Gimbo disse: «Il rapporto si è rovinato a tal punto che ad oggi è compromesso e se il tempo lo sistemerà, ancora non posso saperlo. Praticamente non ci parliamo più. Credo che essere genitore non debba mai discostarsi dall’essere papà. Cioè genitore è uno che insegna a vivere e mio padre lo è stato in maniera esemplare. Però è mancata la parte da papà, quella di spiegarti le cose con amore». L’amore di cui parla Gimbo è la tenerezza che si chiede a un papà, ma che un papà allenatore non può avere con il figlio maschio. «Il dilemma del maschile si gioca tutto sulla performance e sulla competitività: ma se in ballo ci sono medaglie e primati, il gioco allora sì che diventa duro per un figlio, costretto a dover dimostrare almeno di eguagliare il padre, se non di superarlo» spiega l’esperto. «E questo vale anche per i padri imprenditori che lavorano con i figli, con l’idea di lasciar loro lo scettro dell’azienda, in futuro. Non bisognerebbe mai mischiare i ruoli: meglio che il genitore non sia anche allenatore o datore di lavoro, altrimenti il figlio si trova a combattere per soddisfare sia le aspettative dell’allenatore e dell’imprenditore, sia quelle del padre. Un carico di responsabilità enorme, troppo pesante». 

Il padre di Gimbo Tamberi autoritario, più che autorevole

Oltretutto oggi l’autorità paterna è stata ampiamente messa in crisi: il modello del padre autoritario e impositivo, come parrebbe quello di Gimbo dai suoi racconti, non è più credibile. «Oggi ai padri non serve severità ma autorevolezza, e quella bisogna guadagnarsela, perché non si basa su una norma scritta. Si fonda sulla saggezza, sul saper ascoltare e rispettare l’altro» prosegue l’esperto. «Come non è più accettabile un modello di allenatore-guru. Oggi esiste un team complesso di esperti che segue gli atleti, ognuno specializzato in un campo: alimentazione, sessioni di allenamento, coaching mentale. Ma prima di tutto ci sono loro, gli sportivi, sempre più informati, presenti a se stessi, preparati, in molti casi con più lauree. Pensare che l’atleta sia materia da plasmare e indirizzare, non è più sostenibile».

Ma se questo magari è un concetto nuovo, quello che il figlio non sia la proiezione dei nostri desideri e aspettative, pensiamo sia ormai assodato. Eppure Gimbo ci spiazza quando nell’intervista a Belve dice: «Io avrei solo voluto fare un percorso che mi portasse non a essere il figlio di qualcuno, ma me stesso». Con il cuore gonfio tutti noi ci auguriamo che questo grandissimo campione abbia oggi trovato se stesso. È fondamentale per costruire la propria identità lasciare il nido, volare via, vivere questo lutto. Fly or die, Gimbo, ricordatelo.