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CARA CHIARA, ho 47 anni e sono sposata da quasi 3. Dopo un’infanzia difficile pensavo che lui fosse il mio premio nella vita ma, mettendolo sempre al primo posto, credo di aver sbagliato modo di amare. Forse speravo che lui, così come i miei genitori, si accorgesse di quanto sono brava, che ricaricasse la mia scarsa autostima. Negli anni ho iniziato a vedere questa relazione quasi da spettatrice, pensando di essere destinata a ripetere il modello negativo dei miei. Quando ci siamo messi insieme, lui abbracciava il mio mondo, poi i difetti hanno preso il sopravvento. Dice di amarmi, ma da 5 anni assume uno stabilizzatore dell’umore che lo ha addormentato nel male, ma anche nel bene: non ascolta, è distratto, non vuole confrontarsi. È tanto brutto che io mi nutra degli sguardi degli altri per non sentirmi del tutto trasparente?
Cara e subito mia, sento e abbraccio ogni parola che hai scritto. Quanto è comune la minaccia di ripetere gli schemi familiari che ci hanno strangolato, ma finché non ce ne accorgiamo si fa fatica a invertire la rotta. Quello che hai disegnato somiglia al profilo di una persona depressa che, anche se ha la faccia e le mani dell’uomo splendido di cui ti sei innamorata, sembra solo la sua scatola. E in qualche modo lo è: si è chiuso dentro. Non ha smesso di desiderare te ma di desiderare di vivere, e questo credo sia l’aspetto più faticoso da accettare. Non sentirti in colpa se l’affanno ti farà mollare la presa. Ma se deciderai di continuare quest’impresa d’amore fatti aiutare, perché stare accanto a una persona che sta tanto male rischia di minare anche la nostra sacrosanta voglia di vivere. E questo, tra tutti, sarebbe l’epilogo più ingiusto.
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Chiara Gamberale è scrittrice, conduttrice radiofonica e televisiva. Il suo ultimo libro è Il grembo paterno (Feltrinelli)