Vivo con tre figli maschi e un marito maschio, da undici anni lavoro a stretto contatto con colleghi esclusivamente maschi. Ho, mio malgrado, fatto l’abitudine al testosterone che satura l’aria che respiro, a una tenerezza ruvida, a un demenziale ma inestirpabile pisellocentrismo e a improvvisi lampi bellicosi e muscolari capaci di generare corto circuiti. A casa mia si discute parecchio, si fa la lotta greco-romana («Dai, mamma, è per ridere!»). Si vedono film improbabili («Se nei primi dieci minuti nessuno muore di morte violenta, cambiamo») e si mangiano troppi carboidrati. Non l’ho scelto, è capitato. E poiché noi, figlie degli anni ’60 e ’70 del 1900, siamo state educate alla gratitudine indiscriminata («Ringrazia, poteva andare molto peggio»). Ho imparato ad apprezzare quel cromosoma XY che mi ha invaso la vita.
Perché la gentilezza delle donne ci sorprende?
Proprio perché li conosco, io talvolta dei maschi non mi fido. Così, quando una domenica sera di pioggia, mentre guidavo placida verso casa, una macchina nera non ha rispettato la precedenza e si è schiantata contro la mia macchina bianca, ho immaginato che ne sarebbe uscito un uomo trasfigurato dalla rabbia, convinto, contro ogni evidenza, di avere ragione («Colpa tua che eri dove non dovevi essere» avrebbe sbraitato). Di conseguenza ho abbassato il finestrino e, in assetto passivo-aggressivo di lesa maestà, ero pronta ad affrontare la furia del maschio colto in flagranza di reato. E invece no. «Mi scusi. Non l’ho proprio vista» ha detto una signora sulla sessantina, mortificata e piena di grazia. Abbiamo accostato, verificato che stessimo bene, guardato con distaccata signorilità i danni materiali (di fronte al mio paraurti sinistro distrutto volevo scoppiare in singhiozzi ma ho resistito), ci siamo scambiate le generalità e le targhe sotto una pioggia battente e abbiamo convenuto di rivederci l’indomani per la constatazione amichevole, in pasticceria, davanti a un tè e a un biscottino, come si confà alle signore che siamo.
Con più gentilezza il mondo sarebbe un posto migliore
All’appuntamento, in un lunedì pomeriggio di sole, siamo arrivate puntuali, ci siamo sedute a un tavolo appartato, abbiamo ordinato la merenda e conversato amabilmente dei nostri lavori, delle nostre passioni («Faccio yoga» «Gioco a burraco»), dei nostri acciacchi, dei miei figli («Ne ho tre»), dei suoi gatti («Ne ho due»), del peccato di essere lì, così perbene e simpatiche, per una faccenda tanto sgradevole e antipatica. Abbiamo compilato i moduli per l’assicurazione («Non ha la penna? Prenda la mia, prego»). Lei si è assunta le sue responsabilità, io le ho detto «Cose che succedono», facendo sforzi immani per cancellare l’immagine del mio paraurti devastato. Ci siamo strette la mano. «È stato un piacere, signora, nonostante le circostanze» «Anche per me». Il tè e i pasticcini li ha offerti lei. Il mondo, in mano alle signore, sarebbe un posto bellissimo.