Da bambini è capitato a tutti. Di fronte a una piccola-grande ingiustizia (la bambola rotta per dispetto, il libro strappato di mano, il gelato buttato per terra), di pronunciare quelle quattro parole che condensavano sdegno e desiderio di vendetta: «Non ti parlo più!». Tra lacrime e musi lunghi, il proposito di chi aveva subito il danno durava dai tre minuti alle due ore. Tempo di trovare un nuovo gioco, e amici come prima. «In effetti, il silent treatment ricorda le interazioni tra i bambini, ma da adulti è tutta un’altra storia: può essere una forma di manipolazione molto pesante», spiega la dottoressa Eleonora Sellitto, psicoterapeuta e sessuologa a Roma.
Chi sceglie il silent treatment?
Per evitare un confronto che non riescono o non vogliono gestire altrimenti, per farla pagare a qualcuno che, a loro avviso, ha commesso un errore imperdonabile. Con l’intento, più o meno consapevole, di lasciare l’altro da solo a fare i conti con i sensi di colpa, a pentirsi, a riflettere sul suo comportamento. Senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di essere loro dalla parte del torto. «C’è chi pensa che il silent treatment sia un modo soft per gestire un conflitto, ma non è così», dice la dottoressa Sellitto. «È una strategia passivo-aggressiva per punire e controllare qualcuno, messa in atto da chi denota una scarsa empatia e fa fatica a mettersi in discussione».
Il silent treatment come ricatto emotivo
Come sempre, anche quando si parla di silent treatment, generalizzare è vietato. Una cosa è evitare di parlare con una persona con cui siamo arrabbiati per qualche ora, giusto il tempo di calmare i nervi e riorganizzare i pensieri, con l’obiettivo di affrontare, poi, un chiarimento lucido, equilibrato. Tutt’altra cosa rifiutare il dialogo in blocco, magari per giorni. «Chi ha la tendenza a usare il silent treatment manifesta la volontà di tenere l’altra persona sotto scacco, esercitando il proprio potere», prosegue la psicoterapeuta. «Il ragionamento alla base è: “Ti tolgo la possibilità di interagire con me e te la accorderò di nuovo soltanto quando tu riconoscerai di avere sbagliato e farai esattamente quello che voglio io”. Chiamiamo le cose con il loro nome: è un ricatto emotivo, una forma di violenza psicologica presente anche in alcune relazioni tossiche».
La reazione di chi lo subisce
C’è chi finge che l’altro non esista, arrivando a spegnere la luce quando esce da una stanza dove si trovano entrambi. E chi utilizza una versione potenziata del silent treatment, adottando quello che è stato chiamato “silenzio rumoroso”, insieme di comportamenti volti a sottolineare all’altra persona che la si sta volutamente ignorando, per esempio sbattendo porte e lanciando occhiatacce. «Questa tattica logora-nervi provoca in chi la subisce ansia, paura dell’abbandono, dubbi e smarrimento. Alcune persone reagiscono cercando in tutti i modi di far ripartire il dialogo. È estenuante, dovrebbero chiedersi se ne vale la pena, ma spesso ci riescono. Altri individui, invece, si rassegnano, sopportano. E, pur di “rompere l’incantesimo” e tornare alla normalità, finiscono per chiedere scusa e addossarsi colpe che, in realtà, non hanno mai pensato di avere». Ed è proprio questo, ovviamente, l’atteggiamento meno costruttivo.
Gli effetti del silent treatment
Cedere al ricatto, consentendo a chi agisce il silent treatment di ottenere quello che vuole, è il miglior modo per trasformare questa forma di manipolazione in un’abitudine. «Piuttosto, bisogna tenere duro, non lasciare che la paura di perdere l’altro prenda il sopravvento, cercare di spiegargli le nostre ragioni anche se fa finta di non ascoltarci. Provare a dirgli che, in questa maniera, i conflitti non si risolveranno mai e che il rapporto rischia di entrare seriamente in crisi: non è una minaccia, ma un’eventualità concreta», suggerisce la dottoressa Sellitto.
Alla ricerca di un dialogo
«In genere, utilizzano più spesso il silent treatment gli individui che l’hanno a loro volta subìto da bambini, in famiglia: il meccanismo che dà il via libera a questo atteggiamento di chiusura e sopruso è radicato, difficile da riconoscere e sanare», afferma la dottoressa Sellitto. Aiutarli a cambiare non è facile. «Chi sta vicino a persone che tendono a comportarsi così dovrebbe cercare un confronto in un momento di calma, senza rivangare i motivi dei litigi, ma spiegando loro quanto quei periodi di silenzio siano stati abusanti e crudeli», consiglia la dottoressa. «Se i trattamenti del silenzio continuano con frequenza, si può pensare di chiedere la consulenza di uno psicoterapeuta. Il muro delle parole taciute va tirato giù. Per il bene di tutti».