Dopo un periodo di grande allarme e sensibilizzazione, di Aids si parla sempre meno. Ma i casi di infezione da HIV non sono scomparsi. Periodicamente sono organizzate campagne informative, che coinvolgono associazioni, ospedali e ambulatori, ma ancora molto resta da fare, soprattutto per aumentare la consapevolezza dei rischi e dunque evitare le diagnosi tardive, che rappresentano ancora il più grande scoglio da superare.

Aids: troppe diagnosi tardive

Il problema non riguarda soltanto l’Italia. Lo dimostrano iniziative come la campagna European testing week, promossa la scorsa primavera. In quella occasione l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, una delle più grandi realtà per la cura dell’AIDS, aveva lanciato un vero grido di allarme: «C’è una bassa percezione del rischio, non c’è consapevolezza del fatto che esistono malattie a trasmissione sessuale», aveva spiegato dottor Andrea Antinori, Direttore del Dipartimento clinico e UOC immunodeficienze virali dell’Istituto Spallanzani di Roma. Oggi, alla vigilia della Giornata mondiale per la lotta all’IAIDS, la situazione non è migliorata.

Oltre metà dei casi di Aids è in fase avanzata

Dopo un leggero calo nelle diagnosi durante il periodo della pandemia, dovuto al minor accesso alle strutture, dal 2020 i casi in Italia sono tornati a crescere, con poco meno di 2.000 infezione da HIV registrate in un anno. Ma in oltre la metà (58%), la malattia è stata scoperta in una fase avanzata, dunque non solo con minori possibilità di cure, ma anche con maggior rischio di diffusione ad altre persone. Spesso, infatti, coloro che ricevono una diagnosi di infezione da HIV non ne era consapevole e dunque ha continuato, per esempio, ad avere rapporti sessuali non protetti.

Sintomi spesso trascurati

Oltre all’inconsapevolezza, spesso esiste anche un problema di trascuratezza. I dati dell’Istituto Superiore Sanità relativi al 2022, infatti, indicano che il 41% delle nuove diagnosi riguarda persone che avevano già sintomi o segni della patologia. «La percezione del rischio si è abbassata, la malattia è considerata meno grave in quanto esistono i farmaci per controllarla e perché di HIV si parla troppo poco, al di fuori dei momenti ufficiali. Le stime dicono che oltre 10.000 persone oggi hanno l’infezione, ma non ne sono consapevoli. Le diagnosi tardive sono una emergenza nella emergenza. Bisogna aumentare la consapevolezza della popolazione sui rischi di HIV e di tutte le malattie sessualmente trasmissibili», spiega Valentina Mazzotta, responsabile Ambulatorio per la prevenzione e cura di HIV e Infezioni Sessualmente Trasmesse dello Spallanzani.

Aids: i campanelli d’allarme

In alcuni casi esistono campanelli d’allarme spesso ignorati: «I segnali possono essere tanti: l’aver avuto rapporti non protetti (specie occasionali) con persone di cui non si conosce lo stato di infezione, situazione relativamente comune. Altri campanelli di allarme sono la presenza di un’altra infezione sessualmente trasmessa, come sifilide, gonorrea, clamidia. O una infezione da virus epatitici come l’epatite B o l’epatite C – spiega Mazzotta, che invita a prestare attenzione anche ad altre condizioni che possono essere associate ad HIV, «come la sindrome mononucleosica (che può esser spia di un’infezione acuta da HIV), la piastrinopenia, alcune malattie dermatologiche come psoriasi o dermatite seborroica, alcuni tumori della pelle, le sindromi mielodisplastiche, alcuni tumori, primi fra tutti i linfomi».

La paura e la vergogna della diagnosi

Purtroppo a queste spie a volte si presta poca attenzione non solo per il timore della malattia, ma anche per la vergogna e lo stigma che questa portano con sé: «Purtroppo lo stigma è un forte deterrente negativo a ritardare o non eseguire il test. Non è solo la paura di scoprire un’infezione non desiderata e quello che comporta. Ma la paura di essere per questo stigmatizzati, identificati per i propri comportamenti e preferenze sessuali. Lo stigma sociale è ancora forte, e persiste in diversi contesti, negli ambienti di lavoro, nelle scuole, negli stessi ambienti sanitari, dove pure la consapevolezza dovrebbe essere più alta. Lo stigma allontana la persona dalla diagnosi, ma anche da un corretto approccio alla prevenzione», conferma Mazzotta.

La possibilità di effettuare test rapidi per l’Aids

Eppure oggi esistono “armi” in più rispetto al passato, come i test rapidi. «I test rapidi sono uno strumento fondamentale che ha migliorato molto l’approccio al test e la sua diffusione negli ultimi anni. Esistono diversi tipi di test rapidi. Alcuni si eseguono tramite puntura del polpastrello, si basano sulla rilevazione contemporanea di anticorpi e antigene virale, sono molto sensibili nel rilevare uno stato di infezione, anche in fasi molto precoci, molto a ridosso del contagio. Si eseguono in genere negli ambulatori o in strutture di comunità da parte di operatori non sanitari formati a tale scopo. Danno un risultato in 15 minuti che, se positivo, va confermato con un test standard su prelievo venoso», sottolinea la dottoressa.

Controlli anche al di fuori degli ospedali

«Hanno il grande vantaggio non solo della rapidità di risultato (che riduce lo stress dell’attesa dell’esito), ma anche di poter essere eseguiti in ambienti non ospedalieri, non medicalizzati, in strutture neutre, come i checkpoint delle associazioni di volontariato, che avvicinano le persone al test in ambienti più familiari, meno stigmatizzanti. Poi esistono i test salivari, che si acquistano in farmacia e che possono essere eseguiti autonomamente (self-test), come un test di gravidanza o quello per il Covid – chiarisce Mazzotta -Anche questi vanno confermati, se positivi, con un test da effettuare in ambulatorio medico su puntura venosa. I self-test avvicinano ulteriormente quelle persone refrattarie a recarsi in un ambiente medicalizzato, o quelle che, per motivi di privacy o paura di essere stigmatizzati, preferiscono eseguire il test in solitudine».

Esami gratuiti e senza impegnativa

«L’impegnativa non occorre né per i test rapidi, né per i test tradizionali su puntura venosa, ed entrambi sono gratuiti, mentre quelli in farmacia hanno un costo, comunque accessibile», chiarisce la dottoressa. Inoltre non occorre prenotazione per l’accesso, che rimane anonimo. Il test dovrebbe essere accompagnato da un colloquio pre-esame, per valutare motivazioni e profilo di rischio, e da uno post prelievo al momento della consegna del risultato. «Anche un test negativo va spiegato e vanno consigliate le opportune misure di prevenzione, cercando di personalizzarle, ad esempio in base alle abitudini. Il test è un momento in cui far crescere la consapevolezza della persona sui rischi e sulla sua salute sessuale. La prevenzione oggi dispone di strumenti molto efficaci, che possono aiutarci ad azzerare le nuove infezioni, come può farlo una informazione e comunicazione corretta alla popolazione».

Le cure dopo i test

Di fronte a un eventuale esito positivo, però, occorre un supporto esterno: «In tutti questi casi di test eseguiti in comunità o a domicilio, è fondamentale la collaborazione con le figure di supporto (farmacisti, operatori di comunità) per far sì che i positivi vengano immediatamente agganciati a un percorso di cura, e che gli stessi negativi, se a rischio, ricevano adeguate informazioni sulle misure di prevenzione, quali l’uso corretto del profilattico, ma anche la profilassi con farmaci prima o dopo i rapporti a rischio», spiega Mazzotta.

Le terapie attuali

Un altro aspetto che dovrebbe infondere ottimismo è la possibilità di maggiori e migliori cure rispetto al passato. Le terapie antiretrovirali, infatti, hanno dimostrato efficacia e consentono una migliore qualità di vita a chi ha contratto la malattia, anche perché possono essere tarate sulle caratteristiche del singolo individuo e della malattia. «Esistono anche numerose terapie in sperimentazione e sviluppo, con farmaci di nuova generazione, che ci consentiranno di gestire anche le situazioni più difficili. La terapia più diffusa ed efficace oggi è quella combinata in singola compressa quotidiana per via orale, ma abbiamo anche farmaci iniettabili, che si possono somministrare a intervalli più lunghi per via intramuscolare e sottocutanea, e che rappresentano il futuro della terapia, come anche terapie orali a intervalli settimanali che sono al momento in sviluppo», spiega l’esperta.

Si riduce il rischio di infezione

Le nuove cure, inoltre, permettono di limitare la trasmissione del virus: «La persona con HIV che esegue una terapia correttamente e ha la carica del virus non rilevabile nel sangue per effetto della terapia, non trasmette l’infezione, il rischio di trasmissione è pari a zero. E questo beneficio, oltre a ridurre la circolazione del virus, comporta anche una riduzione dello stigma, perché consente di non associare più la persona con HIV all’idea del contagio. Ma la grande novità degli ultimi anni sono i farmaci come strumento di prevenzione: possono essere utilizzati per la profilassi, sia prima dei rapporti a rischio (profilassi pre-esposizione o PrEP), sia in caso di rapporto a rischio occasionale (profilassi post-esposizione o PEP)».

I farmaci per la prevenzione

Come spiega l’esperta dello Spallanzani, «Sono strumenti di prevenzione oggi fondamentali, che vanno ad affiancare il profilattico, dotati di una altissima efficacia. C’è un grande sviluppo di farmaci antiretrovirali per la profilassi pre-esposizione: sia quella orale, oggi è disponibile e rimborsabile in Italia, sia quella con nuovi farmaci in arrivo, iniettabili per via intramuscolare o sottocutanea, con intervalli di somministrazione da 2 a 6 mesi, che richiamano il concetto di vaccinazione. L’obiettivo di zero nuove diagnosi è oggi più che mai alla portata. Una sfida che siamo in grado di raccogliere. Ma servono interventi di sanità pubblica efficaci, accompagnati da una corretta comunicazione e informazione», conclude Mazzotta.