L’Aids oggi fa meno paura, ma rimane una malattia accompagnata da stigma sociale e vergogna: insomma, se ne parla troppo poco. «Il numero di casi è sostanzialmente stabile: nel 2022, l’ultimo anno di rilevazione, erano 1888 rispetto ai 1850 del 2021. Variano di poche decine, non significative. È un dato di per sé né positivo né negativo, ma rimane un altro problema: le nuove diagnosi sono tardive», spiega Antonella D’Arminio Monforte, professore ordinario e direttore della Clinica di Malattie Infettive e Tropicali all’ASST SS Paolo e Carlo e Università di Milano, nella presidenza del Congresso ICAR su Hiv e altre malattie infettive sessualmente trasmissibili.
Troppi casi di Aids, scoperti troppo tardi
Quello che negli anni ’90 rappresentava uno spettro, oggi non è più tale, ma dagli esperti arriva un monito: è necessario non abbassare la guardia. I due anni di pandemia, tra il 2020 e il 2021, hanno influito negli accessi agli ospedali, in particolare durante il lockdown. Anche le campagne di screening sono state pressoché sospese, ma oggi occorre prestare attenzione soprattutto alle diagnosi tardive: «L’Italia ha una percentuale più elevata rispetto alla media europea, che comprende anche gli Stati dell’est europeo. Attenzione anche a un altro dato: nel 60% dei casi, le persone a cui è diagnosticato l’Aids oggi sono soggetti che si erano infettato negli anni precedenti – sottolinea D’Arminio Monforte – Questo perché non c’è diagnosi precoce. Nella maggioranza dei casi i test sono effettuati solo in presenza di sintomi o di un elevato stato di avanzamento dell’immunodepressione. Il che è un danno, sia perché si iniziano tardivamente le terapie, sia perché nel frattempo chi è sieropositivo ha infettato altre persone».
L’Aids e le nuove terapie
Nonostante il record negativo in Europa, però, ci sono segnali positivi che arrivano dal fatto che nel complesso si riduce l’incidenza della malattia. Secondo il monitoraggio di Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, infatti, fin dal 2012 si stava assistendo a una curva discendente. «Una riduzione era stata registrata anche prima del 2020 e in particolare dal 2016, grazie a un nuovo approccio. Mi riferisco alla ‘terapia per tutti’, ossia la possibilità di offrire le cure antivirali anche nelle fasi iniziali dell’infezione da Hiv in soggetti che quindi non risultano più contagiosi. In passato, invece, le cure erano previste solo in avanzato stato di malattia – spiega D’Arminio Monforte – Questo approccio di ‘terapia per tutti’ porta enormi vantaggi sia ai pazienti, che così non rischiano di veder compromesso il sistema immunitario, sia per il resto della popolazione, proprio grazie al fatto che permette una riduzione della contagiosità in quanto il virus, se pur presente nell’organismo, non si moltiplica più nel sangue».
Il caso di Elena Di Cioccio
Da questo punto di vista è emblematico il caso di Elena Di Cioccio, che lo scorso marzo aveva rotto il silenzio, superando lo stigma con cui ha convissuto per oltre 20 anni. Aveva infatti confessato di essere malata di Aids, ma di stare bene: «Ciao, sono Elena Di Cioccio, ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva. Ho l’Hiv», aveva detto guardando dritta in camera, in un monologo nel programma Le Iene, a cui ha lavorato per qualche anno.
Malattia e vergogna da 21 anni
L’attrice, figlia del batterista della PFM Franz Di Cioccio, aveva dunque voluto parlare di una condizione che riguarda molte persone, quelle che convivono con la sieropositività. «In questi 21 anni, mentre le terapie mi consentivano via via di vivere una vita sempre più normale, ad uccidermi è stata una smisurata vergogna di me stessa. Ho vissuto la malattia come se fosse una colpa. Pensavo che tra me e l’altro, la persona peggiore fossi sempre io. Mi sentivo sporca, difettosa. Avevo timore di essere derisa, insultata, squalificata dal pregiudizio che ancora esiste nei confronti di noi sieropositivi», aveva aggiunto.
Ma oggi la convivenza con l’Hiv è possibile e non riguarda solo lei.
Aids oggi, tra minor percezione del rischio e stigma
Da un lato, dunque, una curva discendente, ma dall’altro restano ancora molte criticità, a partire dallo stigma che accompagna ancora questa malattia: «Purtroppo è così. Il medico di base e anche il collega non infettivologo ancora oggi a volte faticano a proporre il test dell’Hiv al paziente che presenta un quadro sospetto o sintomi compatibili con la malattia: il timore è di tacciarlo di tossicodipendenza o omosessualità, visti come qualcosa da non menzionare. L’esame viene richiesto spesso come estrema ratio. Ce lo conferma uno studio che stiamo conducendo su cosiddetti indicators diseases, cioè l’input di eseguire il test Hiv in presenza di malattie o sintomi che potrebbero essere campanelli d’allarme della malattia» spiega D’Arminio Monforte l’esperta.
I possibili sintomi dell’Aids
«Possono essere molti – prosegue D’Arminio Monforte – si tratta soprattutto di patologie che nella persona con Hiv hanno un’incidenza maggiore rispetto alla popolazione generale: per esempio il fuoco di Sant’Antonio in persone con meno di 60 anni, oppure le epatiti che spesso sono indice di un comportamento sessuale a rischio, o ancora le polmoniti in soggetti giovani e, in generale, le infezioni herpetiche».
Le donne e la minor percezione del rischio Aids
Nel 2020 la maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv era attribuibile a rapporti sessuali non protetti da preservativo: 88,1% dei casi complessivi, dei quali il 42,4% tra eterosessuali e il 45,7% tra MSM, Men who have sex with men. Questo porta a pensare che oggi si abbia meno percezione dei comportamenti a rischio, nonostante le conoscenze sulle modalità di trasmissione del virus: «Sicuramente è vero che è calata la sensibilità nei confronti di questa malattia. Va detto che sono soprattutto le donne a non ritenersi a rischio e a non sottoporsi al test dell’Hiv che, oltretutto, oggi si possono fare anche a casa. Le analisi si effettuano soprattutto in caso di gravidanza e per fortuna, dal momento che il virus si trasmette anche al nascituro. Ma attenzione: se in Italia e in generale in Occidente l’Aids colpisce maggiormente gli uomini – e in particolare è prevalente tra tossicodipendenti e MSM – nel resto del mondo l’incidenza maggiore riguarda soprattutto le donne. Ciò è vero specie in Africa e in Paesi nei quali il potere contrattuale delle donne nel chiedere il ricorso al preservativo è nullo. Qui, infatti, l’incidenza nella popolazione femminile è superiore al 50%».
Le donne detenute e l’Hiv
C’è anche un ambito di cui si conosce poco, ma che ha la sua importanza e vede le donne protagoniste, loro malgrado. Si tratta delle detenute nelle carceri italiane. Dai dati del progetto ROSE, che si è occupato proprio delle infezioni da HIV e da Epatite C nelle donne che vivono in cella, emerge che «l’HCV è stato eliminato in diversi penitenziari, mentre gli screening per l’HIV hanno consentito di avviare i relativi trattamenti», come spiegato da Sergio Babudieri, Direttore Scientifico della Società italiana di medicina penitenziaria (SIMSPe). «Se vent’anni fa in carcere la prevalenza di HIV era del 20%, oggi è appena l’1% e sono quasi tutti in terapia, riducendo anche il rischio di contagio», sottolinea Babudieri. Purtroppo di recente si è registrato un nuovo aumento, che si riferisce ai migranti, «a causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie a cui sono costretti. L’auspicio – aggiunge il direttore scientifico della SIMSPe – è di ottimizzare il momento di detenzione per favorire screening e trattamenti per persone che accedono con maggiore difficoltà ai servizi di cura e assistenza».
Aids: le nuove terapie e la convivenza con la malattia
Nel corso degli anni le terapie sono migliorate e oggi si dispone di cure che permettono una convivenza con la malattia: «Al momento ci sono nuovi farmaci in sperimentazione e di prossima commercializzazione, ma soprattutto c’è un approccio diverso legato al cosiddetto long acting» spiega l’infettivologa. «In pratica alla terapia antivirale quotidiana, che prevede l’assunzione di una pillola al giorno, si è affiancata da pochi mesi la possibilità di ricorrere a farmaci da ricevere ogni due mesi, sotto forma di punture intramuscolo in ospedale. La prospettiva è di arrivare anche a sole due iniezioni all’anno, ogni sei mesi. Questo facilita di molto la vita, soprattutto a più giovani, che così non devono ricordarsi di prendere la compressa quotidianamente – prosegue D’Arminio Monforte – L’aderenza alla terapia, infatti, rappresenta un aspetto fondamentale per tenere sotto controllo l’Aids: oggi può essere considerata come una malattia cronica, con l’unica accortezza di ricordarsi che è causata da un virus e che i farmaci non lo distruggono, ma di fatto lo “addormentano”, bloccandone la replicazione. Per questo non si deve interrompere l’assunzione dei medicinali neppure per qualche giorno. Non solo: il rischio è che si possano creare, al pari di quanto accade anche con i batteri, dei ceppi resistenti, per cui diventerebbe difficile trovare un’altra associazione di farmaci efficace» conclude l’esperta.