Con l’invecchiamento generale della popolazione gli esperti stimano che cresceranno anche coloro che soffrono di demenza. Se oggi in Italia se ne conta circa 1 milione e mezzo, le stime indicano che entro il 20250 potrebbe arrivare a 2.300.000. Si tratta del 55% in più. Per questo occorre investire nella ricerca di nuove cure, ma anche migliorare l’assistenza, come chiedono l’Alzheimer’s Disease International (ADI) e la Federazione Alzheimer Italia, in occasione del 13° Mese Mondiale Alzheimer.

Alzheimer e demenza in crescita

Secondo i dati internazionali, ogni 3 secondi una persona sviluppa una forma di demenza, che oggi è la 7° causa di morte a livello globale. «In tutto il mondo si stima che ci siano oltre 55 milioni di persone che vivono con questa condizione, che si prevede diventino 78 milioni tra cinque anni e 139 milioni entro il 2050», ricorda la Federazione Alzheimer Italia, che ricorda anche l’impatto economico: «Attualmente il costo annuale stimato della demenza è di 1,3 trilioni di dollari, ma si prevede raggiunga i 2,8 trilioni di dollari nel 2030». Ma a pesare sono anche le difficoltà dei pazienti nel trovare terapie adeguate e dei familiari nel prendersene cura. Ad oggi «la fase assistenziale di sostegno è una priorità», conferma Antonio Guaita, geriatra e Direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso.

I progressi della ricerca

Nel frattempo, però, anche la ricerca fa progressi, soprattutto nell’individuazione dei fattori di rischio. La Lancet Commission ha aggiornato di recente il proprio rapporto sui fattori di rischio per la demenza, portandoli a 14. Tra questi ci sono l’inattività fisica, il fumo, l’eccessivo consumo di alcol, le lesioni alla testa, i contatti sociali poco frequenti, l’obesità, l’ipertensione, il diabete, la depressione, i disturbi dell’udito, insieme a scarsi livelli di istruzione e all’esposizione all’inquinamento atmosferico. Ma ora si sono aggiunti anche la perdita della vista non trattata e l’elevato livello di colesterolo LDL, il cosiddetto “colesterolo cattivo”.

I fattori di rischio da non sottovalutare: vista e colesterolo

«In linea generale il calo della vista importante comporta un aumento del rischio del 2% (mentre ad esempio quello dell’udito del 7%). Gli studi lo hanno confermato come fattore di rischio soprattutto quando è presente la cataratta, mentre così non sarebbe per il glaucoma e la degenerazione maculare – osserva Guaita – Il problema è dato dai tempi di attesa per un eventuale intervento, così come per una visita oculistica, poiché non è possibile la prescrizione urgente. Ad esempio, nella Città metropolitana di Milano il termine è di 120 giorni, ma solo il 68% ha potuto ricevere la visita entro la tempistica». Nel caso del Piemonte, recenti rilevazioni indicano in 3 mesi i tempi medi di attesa.

Perché la cataratta può favorire l’Alzheimer

Il nesso tra calo della vista e possibile aumento del rischio di Alzheimer è analogo a quello dell’udito: «Se si vede meno, in qualche modo si reduce il rapporto con l’ambiente. Chiaramente un conto è l’essere privi di vista fin dalla nascita, che comporta anche una notevole compensazione, un altro è diventarlo in età adulta. Non vedere bene ridimensiona l’interazione con ciò che ci circonda e dunque anche l’attività quotidiana – spiega Guaita – A ciò si aggiunga che gli studi indicano che la beta amiloide, considerate una delle cause dell’Alzheimer, può a sua volta favorire la cataratta, quindi il rapporto tra le due patologie è a più livelli».

Attenzione al colesterolo “cattivo”

Per il colesterolo, risulta importante solo se alto prima dei 65 anni, mentre negli over 75 i dati non sono così chiari. In effetti in età adulta è importante tenere in colesterolo LDL e totale sotto controllo, mentre vi sono dati per gli ultra ottantenni in cui risulta negativo anche il colesterolo troppo basso, in termini di minor sopravvivenza. Per questo cui in età più avanzata, ad esempio dopo i 75 anni, i valori di riferimento dovrebbero essere modificati tollerando valori superiori a 140», spiega Guaita.

Diagnosi migliori e precoci (ma non basta)

La conoscenza dei fattori di rischio è importante perché permette una maggiore prevenzione, ma anche diagnosi più tempestive. La conoscenza permette di far salire «dal 40 al 45% del totale i casi di demenza previsti a livello globale entro il 2050 che potrebbero essere ritardati o addirittura evitati intervenendo su questi 14 fattori», spiega la FAI. «Se si analizza la destinazione del Fondo Nazionale Demenze 2020-2023, si osserva che il 50% dei progetti ha riguardato proprio la diagnosi, sia di MCI (Mild cognitive impairment, cioè deterioramento cognitivo lieve) al 25%, sia di demenza per un altro 25%. È un aspetto importante, soprattutto se si tiene conto che in genere in Italia passano due anni fra l’esordio dei sintomi e la diagnosi», conferma il Direttore della Fondazione Golgi Cenci.

La priorità è l’assistenza a pazienti e familiari

«In questa fase a mio parere l’assistenza è la necessità più urgente – chiarisce Guaita – Le liste di attesa per i servizi residenziali, come per quelli diurni, sono spesso scoraggianti: spesso non c’è alcuna certezza sulle tempistiche e sono comunque di diversi mesi. Mancano quasi ovunque centri di counseling ai quali le famiglie possano rivolgersi per una consulenza, non per una autorizzazione burocratica, ma dove poter trovare un consigliere o accompagnatore. Questo riguarda sia la fase di ricerca dove definire la diagnosi, sia il post diagnostica quando si ha necessità di potersi confrontare con pareri di esperti per capire come intervenire rispetto al peggioramento dei sintomi e alla comparsa dei disturbi del comportamento».

A che punto è la ricerca di farmaci

Quanto all’urgenza di trovare cure innovative, Guaita chiarisce: «Non illudiamoci che i nuovi farmaci biologici anti beta amiloide (come Aducanumab e Lecanumab) siano la risposta terapeutica che si attendeva. Giustamente l’l’agenzia europea del farmaco EMA li ha bocciati, nonostante l’Associazione europea dei malati e famigliari Alzheimer Europe ne solleciti l’approvazione. Mancano, infatti, dimostrazioni di efficacia clinica, cioè di effettivo miglioramento o minor peggioramento per i pazienti».

Differenza tra diagnosi e cura

I biomarcatori, infatti, non rappresentano di per sé un trattamento: «Identificano una patologia particolare, non una sindrome clinica, e un biomarcatore non è un test diagnostico per la demenza. Attualmente, i biomarcatori da soli non dovrebbero essere utilizzati per la diagnosi e per determinare il trattamento poiché la maggior parte delle persone con un biomarcatore amiloide β positivo da solo non svilupperà mai la demenza». Il riferimento è anche a casi che coinvolgono personaggi famosi come Chris Hemsworth, che si è sottoposto a un test che avrebbe indicato una predisposizione genetica all’Alzheimer.