Anche il cuore ha un “cervello”, con la capacità di “ragionare” e, soprattutto, è in grado di capire quando è il momento di rigenerarsi. Ne sono convinti gli esperti di neurologia, che spiegano come anche questo organo sia in grado di produrre alcune proteine fondamentali per mantenere la plasticità e la funzione dei tessuti nervosi. In altre parole, significa che è in grado di autoripararsi.

Il cuore ha un “cervello”

Il cuore ha la funzione principale di far circolare il sangue in tutto il corpo, dagli organi alle cellule, permettendo quindi l’ossigenazione dei tessuti. Allo stesso tempo riporta ai polmoni l’anidride carbonica da espellere. Ma tra le sue capacità ce n’è anche una molto meno nota, se non addirittura quasi sconosciuta ai non addetti ai lavori: ha una sorta di “cervello”. «La concezione del cuore come semplice pompa meccanica è profondamente mutata grazie alla scoperta della presenza di un cervello cardiaco che, coi suoi 50/70.000 neuroni, rende il cuore una sorta di organo pensante», spiega Massimo Fioranelli, Professore Associato di Fisiologia dell’Università Guglielmo Marconi di Roma e Specialista in Cardiologia.

Il cuore ha una sua memoria

«L’asse cuore-cervello è una comunicazione a due vie, in cui ognuno dei due organi è coinvolto attivamente in quanto invia e riceve messaggi. Anche il cuore ha una sua memoria che viene plasmata dall’esperienza e reagisce agli eventi anche in relazione ai vissuti passati. Il legame tra questi due organi è talmente forte che, anche nella pratica clinica, non è possibile non prendere in considerazione la loro interazione», chiarisce ancora Fioranelli. Insomma, va superato il concetto di Cartesio (quello di Cogito, ergo sum) «della separazione della mente dal corpo che ha caratterizzato la medicina dagli inizi del ‘900».

Cuore e cervello, mente e corpo non sono separati

Va rivista, quindi, l’idea che il cuore si limiti a rispondere ai comandi del cervello. Il cuore umano è molto più di quello che usualmente riteniamo sia: una pompa efficiente che sostiene la vita. «Il cervello comunica con il cuore attraverso le due branche, simpatica e parasimpatica del sistema nervoso autonomo, mentre il cuore invia informazioni al cervello in 4 diversi modi: attraverso gangli neurali cardiaci (comunicazione neurologica), attraverso ormoni (comunicazione ormonale), attraverso cambiamenti dell’onda sfigmica (comunicazione biofisica) e attraverso interazioni elettromagnetiche (comunicazione energetica)». Ma cosa comportano queste scoperte?

Il ruolo delle neutrofine del cuore

Un aspetto importante riguarda la capacità del cuore di autoripararsi” Come spiegano i neurologi, il cuore è costituito anche da cosiddette neutrofine. Sono proteine fondamentali per l’organismo umano, deputate al mantenimento della plasticità e della funzione dei tessuti nervosi. «Il loro capostipite (l’NGF) fu scoperto da Rita Levi Montalcini, con uno studio che le valse il premio Nobel – spiega Fioranelli – Sono sostanze che tradizionalmente pensavamo prodotte solo dal cervello, ma che abbiamo visto essere prodotte da molti organi, ciascuno con il suo cervello. Il cuore produce una neurotrofina, oggetto dei nostri studi, chiamato BDNF». Proprio queste sostanze sono la chiave per capire una delle funzioni meno conosciute del cuore: la sua capacità di rigenerarsi.

Il cuore può rigenerare le proprie cellule

In che modo, dunque, il cuore può rigenerare alcune sue cellule? «Queste sostanze rivestono un ruolo essenziale nello sviluppo embriologico del cuore: fanno maturare le cellule staminali intervenendo nella loro differenziazione. Possiedono inoltre un effetto trofico». Significa che sono in grado di agire sulla crescita delle cellule nervose del cuore e sulle cellule muscolari, «influenzandone la sopravvivenza o la morte (apoptosi). Rappresentano quindi un modello di ricerca in campo anti aging», chiarisce l’esperto.

Come aiutare il cuore a restare giovane

Queste scoperte, quindi, portano a sottolineare l’importanza dell’influsso del cervello sul cuore e viceversa. «Il legame, ormai ampiamente dimostrato, tra mente e corpo, ha portato alla diffusione di una serie di metodiche che mirano a causare modificazioni fisiologiche tramite il controllo di pensieri, emozioni e vissuti. Le terapie mente-corpo sono molteplici e sono usate nella gestione dello stress, per raggiungere la salute mentale, e curare od attenuare le numerose patologie correlate proprio a una condizione di stress. Tecniche come il biofeedback e la mindfulness vengono utilizzate per questo e negli ultimi anni sono state al centro di numerose ricerche, pubblicate su riviste scientifiche, che ne hanno dimostrato gli effetti sul benessere fisiologico e psicologico», sottolinea il professore.

I comportamenti “virtuosi”

«L’obiettivo principale è risvegliare la consapevolezza di sé, del proprio corpo e dei propri processi mentali che si ripercuotono sulla sfera fisica, psichica ed emotiva. Noi abbiamo applicato la terapia con BDNF “Low Dose” al trattamento dell’aritmia più frequente in età avanzata: la fibrillazione atriale. I risultati sono stati molto promettenti ed aprono una prospettiva per studi più numerosi per il futuro», dice Fioranelli. «Queste recenti scoperte scientifiche aprono le porte a una comprensione completa e organica del corpo umano», commenta Alessandro Pizzoccaro, Presidente e fondatore dell’azienda farmaceutica milanese Guna, organizzatrice del recente Symposium sulla Medicina dei Sistemi.

Il corpo lavora in sinergia

Il fatto di capire che il corpo lavora in sinergia per mantenere la sua condizione di salute e benessere porta anche a un’altra conclusione, che rappresenta una nuova frontiera nell’approccio al benessere. «Nella nostra visione la mente è ovunque e incarnata nel nostro corpo. Ogni organo ha il suo cervello e l’unità non è la somma delle parti. Partendo da questa visione possiamo comprendere come non ci sia più divisione tra mente e corpo e la cura dell’uno influenzi la sfera dell’altro. Questo nuovo paradigma si ripercuote già attualmente nelle terapie che la medicina pone al servizio dell’essere umano. L’utilizzo clinico delle neurotrofine, e in particolare del BDNF, rappresenta una frontiera promettente nella realizzazione pratica di questo paradigma», conclude Fioranelli.