C’è una nuova speranza per i circa 3 milioni di donne che in Italia soffrono di endometriosi: la malattia, che colpisce con cicli mestruali molto dolorosi, potrebbe essere legata a un batterio. Se così fosse, significa anche che questa sindrome potrebbe essere individuata tramite un tampone e la patologia potrebbe essere affrontata con una terapia antibiotica.
Lo studio: un batterio come causa dell’endometriosi
L’endometriosi, che colpisce in genere una donna su 10, specie tra i 25 e i 35 anni, potrebbe avere anche una causa batterica. È quanto emerso da uno studio, condotto su 155 donne giapponesi dal team di ricercatori dell’università di Nagoya, guidato dal professor Yutaka Kondo che ha collaborato anche con il National Cancer Center. Gli esperti hanno analizzato il tessuto uterino delle donne, scoprendo che nel 64% di quelle in età fertile prese a campione per lo studio era presente il ceppo dei Fusobacterium, un batterio che sarebbe responsabile dell’aggravarsi della patologia in seguito a infezione. Il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista scientifica Science Transnational Medicine e su Nature, confermerebbe l’esistenza di una variante dell’endometriosi di tipo batterico.
Una malattia ancora da indagare
L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica degli organi genitali femminili e della zona del peritoneo pelvico. È ritenuta una patologia multifattoriale, cioè legata a più fattori, tra i quali anche i batteri. Nello specifico i ricercatori giapponesi hanno indagato il ruolo del Fusobacterium. «È un batterio noto. È già presente, per esempio, nell’intestino e nel cavo orale, ma normalmente non crea particolari problemi», spiega Roberto Marci, professore ordinario di Ginecologia e ostetricia all’Università di Ferrara e presidente della Società italiana di riproduzione umana (SIRU).
«Sicuramente lo studio è interessante e fa ben sperare, anche se occorrono cautela e prudenza. Esistono già lavori che hanno indagato il rapporto tra batteri e malattia, ma questo è andato oltre» osserva Marci. Dopo aver riscontrato la positività al Fusobacterium da parte di un campione di donne, infatti, è stato impiantato del tessuto endometriale in alcuni topi da laboratorio. Poi gli scienziati hanno somministrato una terapia antibiotica agli animali, osservando una diminuzione delle lesioni tipiche dell’endometriosi rispetto agli esemplari non trattati. Infine, nei casi associati alla presenza del batterio si è notata una progressione molto più lenta della malattia. Per questo il professor Kondo ha annunciato che «saranno eseguiti test su donne affette da endometriosi per verificare la stessa risposta positiva in seguito a trattamento antibiotico».
A quando un antibiotico contro l’endometriosi?
La vera speranza è proprio quella di poter arrivare a individuare tempestivamente (potenzialmente con un semplice tampone) la presenza del batterio nelle donne con endometriosi, da poter poi trattare con un antibiotico. Ma quando potrebbe essere possibile? «L’aspetto positivo di questo studio sta proprio nel fatto che, dopo aver scoperto la positività al batterio in un campione di donne, si è proseguito l’analisi in laboratorio con i topi e la somministrazione di un antibiotico ha permesso di ottenere una risposta positiva sugli animali – commenta Marci – Però occorreranno ulteriori approfondimenti, prima di tutto su un numero maggiore di casi analizzati. Va anche verificata la risposta positiva all’antibiotico nelle donne affette da endometriosi». «Al momento è molto difficile fare previsioni. Ad oggi potremmo ipotizzare che l’antibiotico possa servire ad aiutare a bloccare la diffusione del batterio, ma ci vorrà del tempo», chiarisce Marci. Per le donne con endometriosi, dunque, rimangono per ora due le opzioni: «Il trattamento medico con la pillola anticoncezionale, che offre buoni riscontri, e quello chirurgico. La scelta dipende da una valutazione che va effettuata caso per caso, a seconda della sintomatologia con cui si presenta l’endometriosi, ma anche a seconda dell’estensione della patologia. In ogni caso con le due opzioni si riesce a gestire la patologia in modo abbastanza buono. Ora speriamo che il nuovo studio e i successivi approfondimenti possano aggiungere nuove possibilità di cura», conclude l’esperto.