Poca prevenzione per le donne, pochi esami e soprattutto trattamenti pensati per lo più per una popolazione maschile.
Gender Health Gap: il divario di genere in campo medico
Il divario di genere c’è anche in campo medico e si chiama, con termine inglese, Gender Health Gap. A confermarlo sono i dati europei sulla salute al femminile in base ai quali, tra l’altro, l’Italia è fanalino di coda, davanti solo a Macedonia del Nord, Serbia, Romania, Bosnia-Erzegovina, Moldavia, Albania, Georgia e Turchia.
La classifica europea della salute al femminile
A guidare il Women’s Health Index, stilato da Hologic, azienda leader nel settore diagnostico, sulla base di un’indagine su un campione di 147mila partecipanti da 143 Paesi differenti, è l’Austria. Per il terzo anno consecutivo Vienna si conferma, dunque, il miglior posto per le cure offerte alle donne, soprattutto in termini di prevenzione. D’altro canto il Paese ha avviato un apposito programma sulla medicina di genere nel 2017, attuando 40 misure specifiche in tema di salute femminile. A seguire si trovano poi la Germania, la Danimarca, la Polonia e la Repubblica Ceca, che si collocano anche nella Top 10 mondiale.
Gender Health Gap: scarso accesso alle cure
A colpire è il fatto che, mentre ci si adopera per ridurre il Gender Pay Gap, ossia la differenza di retribuzione tra uomini e donne a parità di mansioni, sul fronte della salute non si sono registrati passi avanti negli ultimi due anni. Come si legge nel report, infatti, dalla pandemia Covid del 2020 a oggi «le donne non sono in condizioni migliori». I dati indicano che «una donna su quattro ha problemi che le impediscono di condurre normali attività», come spiega Euronews. Questo porta, quindi, anche a ricadute economiche.
Italia fanalino di coda per il Gender Health Gap
La stessa Euronews riporta come un Paese come il Regno Unito non riesca a offrire alla popolazione femminile standard adeguati a quelli della media europea. In base alla ricerca, il 32% delle donne britanniche riferisce di sentirsi scoraggiata rispetto al 26% della media UE. Circa il 39% si dice persino stressata il giorno prima di una visita, mentre nel resto del Vecchio Continente il dato si ferma al 34%, già comunque alto. L’Italia, però, non se la passa meglio, dal momento che si trova al 32esimo posto nella classifica europea, alle spalle non solo di Francia, Spagna, Belgio, Grecia e Portogallo, ma anche della maggior parte dei Paesi della ex Jugoslavia, delle repubbliche baltiche e, tra gli altri, di Ungheria, Bulgaria e Malta.
Perché l’Italia figura indietro?
«L’indagine di Hologic è sicuramente importante e approfondita. È molto avvilente, però, vedere come in Italia le donne si sentano ancora così poco curate. È evidente che ci sia ancora molto da fare, sia in termini di formazione del personale sanitario, sia di riorganizzazione dei percorsi clinici e terapeutici. E questo avviene nonostante l’Italia sia il primo paese al mondo ad avere una legge che prevede di considerare le differenze di genere nella medicina», spiega Elena Ortona, direttrice del Centro di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, nato nel 2017. A farle eco è anche Antonella Vezzani, presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Donne Medico. «Purtroppo c’è anche (e ancora) un forte pregiudizio nei confronti delle donne che si riflette sul modo in cui è gestita la loro salute femminile: al di là della loro funzione riproduttiva, non sono ancora curate per la loro specificità».
Perché le donne sono meno curate
«Per esempio, è vero che le donne vivono più a lungo, ma sono anche affette da malattie croniche invalidanti, soprattutto negli anni di vita in più rispetto agli uomini – chiarisce Vezzani – In genere in età senior possono contare su pensioni più basse, perché sono state retribuite meno, e sono più sole. Questi rappresentano fattori di rischio anche per la salute. In più hanno un atteggiamento protettivo che le porta a prendersi più cura dei familiari rispetto a se stesse».
La “sindrome del bikini”
Infine, pesa la cosiddetta “sindrome del bikini”: come ha ricordato il mese scorso la rivista Nature, occorre investire di più nella ricerca di farmaci adatti anche alle donne, senza limitarsi al campo della fertilità femminile – prosegue la presidente di Aidm – Nei trials clinici, infatti, le donne sono poco incluse per molti motivi: avendo una ciclicità ormonale che cambia nei 28 giorni è difficile studiare effetti di un farmaco. Inoltre c’è una certa preoccupazione nel sottoporle a farmaci non studiati, per via dei potenziali effetti sul feto. Anche quando sono incluse, poi, spesso non esaminate come gruppo a sé, per controllare le possibili conseguenze di un farmaco solo su una popolazione femminile. Quindi occorre un cambiamento importante a più livelli».
Il Gender Health Gap: in cosa si traduce
I numeri parlano chiaro, anche fuori dai confini italiani: solo circa metà delle donne europee si è sottoposta a un esame del sangue negli ultimi 12 mesi. Solo una su 5 ha ricevuto screening contro il cancro, una su 4 ha effettuato controlli per il diabete e solo una su 10 per le malattie sessualmente trasmissibili o infezioni come HIV, tumore e infertilità. «C’è ancora un grande Gender Health Gap da colmare. Penso che le cure sanitarie per donne e ragazze siano state considerate una questione di secondo piano», spiega Janet Lindsay, CEO presso il Wellbeing of Women, ente benefico inglese che si adopera per ridurre le differenze di genere in campo sanitario.
Stessa malattia, sintomi e cure diverse
«Le malattie cardiovascolari rappresentano un esempio paradigmatico delle differenze di genere. Esse, classicamente considerate un problema maschile, sono, invece, la principale causa di morte delle donne, per diversi fattori fra cui i più rilevanti sono la sottostima e la difficoltà di riconoscere i sintomi, spesso differenti da quelli maschili. Ciò comporta ritardi nella diagnosi e nei trattamenti terapeutici e di conseguenza una prognosi peggiore. L’infarto del miocardio, ad esempio, spesso nelle donne non si manifesta con il classico dolore al braccio sinistro, ma con nausea e mancanza del respiro e viene facilmente interpretato come un problema dell’apparato digerente», sottolinea Ortona dell’Iss.
Il curriculum nascosto (in corsia)
«Da questo punto di vista il Covid ha aiutato: si è visto, per esempio, che le donne si ammalavano meno, ma potevano essere più esposte al cosiddetto long Covid – osserva Vezzani – Questo fa capire l’importanza di cambiare i percorsi diagnostico-terapeutici, inserendo le conoscenze di genere per le specifiche patologie ed eliminare il cosiddetto “curriculum nascosto”: è quello che accade quando i giovani medici adottano le stesse procedure in uso nei reparti, magari da tempo, senza un adeguamento alle nuove scoperte, veicolando in qualche modo anche il pregiudizio di genere».
Migliorare la diagnosi, ridurre le malattie
«Un altro esempio importante di differenze di genere è rappresentato dal tumore al colon. Infatti si è osservata un’incidenza più alta negli uomini rispetto alle donne, ma le donne sembrano più inclini a sviluppare una forma più aggressiva di questa neoplasia nel tratto del colon destro ascendente – spiega Ortona – Questa localizzazione, al contrario di quella nel colon discendente, presenta alcune caratteristiche importanti, inclusi falsi negativi dovuti alla maggiore difficoltà di rilevare la presenza di sangue occulto nelle feci».
La medicina di genere in Italia: cosa manca
«Come già detto bisogna ancora lavorare molto per arrivare a una reale e concreta applicazione di un approccio alla salute attento alle differenze di genere. Sicuramente le 4 aree di intervento su cui bisogna impegnarsi ed investire sono: 1) la ricerca scientifica; 2) la formazione degli studenti e l’aggiornamento del personale sanitario; 3) la comunicazione e divulgazione alla popolazione; 4) l’organizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali. Nel Piano Nazionale per l’applicazione della medicina di genere sono descritte, per ciascuna di queste 4 macro-aree, gli obiettivi strategici e le azioni da mettere in campo. Quello che però va considerato è che bisogna investire per realizzare tali azioni e per rendere il nostro sistema nazionale sempre più equo e appropriato. Solo rendendo disponibili fondi specifici potremmo raggiungere gli altri Paesi che secondo il Women’s Health Index, stilato da Hologic, attualmente ci superano», conclude Ortona.