La scoperta potrebbe rivoluzionare la qualità della vita e aiutare la longevità in salute. Grazie a un gene, chiamato Mytho, potrebbe essere possibile rallentare l’invecchiamento delle cellule. A individuare e studiare il gene della longevità e come funziona sono stati alcuni ricercatori italiani. Insieme a studiosi internazionali, hanno osservato come la sua funzione sia simile a quella di un interruttore: se disattivato, le cellule invecchiano più rapidamente; se, invece, viene attivato, è possibile mantenere uno stato di salute più a lungo.

Il gene della longevità Mytho: cos’è

«È un gene che abbiamo tutti, molto ben conservato in diverse specie. Per esempio si trova in moscerini, vermi, topi e negli esseri umani. Il fatto che si sia conservato significa che non ha cambiato molto nella sua struttura. Ma la cosa più importante è la sua funzione, che è quella di attivare un processo di pulizia della cellula. In pratica rimuove le proteine o gli organelli che possono essere danneggiati nel corso della vita di tutti i giorni», spiega Marco Sandri, professore ordinario di Patologia generale all’Università di Padova e coordinatore dello studio, che ha coinvolto anche l’Università di Bologna, l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina di Pozzuoli e l’Istituto Superiore di Sanità a Roma.

Come funziona il gene della longevità

Lo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Investigation e che ha coinvolto anche ricercatori inglesi, tedeschi e americani, è stato condotto sul verme Caenorhabditis Elegans, perché rappresenta un modello animale utilizzato nei laboratori di genetica per gli studi sul Dna. Gli scienziati hanno scoperto che, attivando il gene Mytho, le cellule riescono a mantenersi più a lungo in salute, mentre disattivandolo queste invecchiano precocemente. Agirebbe, dunque, come una sorta di interruttore della longevità. «Inoltre questo gene potrebbe essere coinvolto anche in malattie genetiche di cui non si conoscono ancora le cause», spiega Sandri.

Come è stato scoperto il gene della longevità

La ricerca italiana è durata 9 anni: «Nel 2015 abbiamo iniziato ad analizzare il cosiddetto “lato oscuro del genoma”, ciò che non conosciamo, cercando geni che fossero in grado di attivare il sistema di autofagia, cioè la pulizia della cellula rimuovendo ciò che la danneggia – chiarisce Sandri – Ne abbiamo studiati diverse centinaia, isolandone 4 e caratterizzando questo, chiamato Mytho, cioè cercando di capire la sua azione, dove si localizzava, ecc. Abbiamo visto che attivandolo si innesca un processo di invecchiamento in salute, mentre disattivandolo si assiste a un progressivo danneggiamento cellulare, riducendo l’aspettativa di vita delle cellule stesse».

Come si attiva

«La funzione del gene Mytho, dunque, è essenziale: se si accumulano nelle cellule materiali come le proteine, aumenta lo stress ossidativo che porta a liberare radicali liberi e dunque a un invecchiamento precoce» sottolinea Sandri. A dare ancora più rilievo alla scoperta è il fatto che esiste un modo per favorire l’attivazione del gene “anti-age”. «La sua funzione è influenzata da alcuni segnali, legati a loro volta alla nutrizione e all’attività fisica. Significa che, per le conoscenze che abbiamo oggi, con una dieta corretta ed equilibrata, insieme a una vita fisicamente attiva, possiamo agire in maniera positiva sull’azione del gene Mytho, che a sua volta è determinante nella pulizia delle cellule».

Una possibile protezione da malattie genetiche

Il ruolo protettivo di Mytho non si limiterebbe a una migliore longevità. Gli studi condotti su cellule di mammifero e in biopsie di tessuto muscolare su individui di diverse età lascerebbero intendere che questo gene possa essere implicato anche nella comparsa di malattie genetiche, le cui cause oggi sono ancora sconosciute. «Lo stress ossidativo legato ai radicali liberi può generare danni al Dna, che sappiamo contribuire all’insorgenza di tumori – spiega ancora Sandri – La maggior parte del nostro codice genetico è ancora ignota, ad esempio più di 5mila geni che codificano per proteine su un totale di 20mila sono ancora del tutto sconosciuti. Per questo, negli ultimi anni, ci siamo concentrati su questa parte inesplorata del nostro Dna e dobbiamo proseguire».