Cos’hanno in comune uno studente universitario che non si ricorda metà di quello che ha imparato la sera prima dell’esame e suo padre che cammina affannato su e giù per la strada alla ricerca dell’auto che chissà dove ha parcheggiato?

L’ansia incide sulla memoria

Hanno in comune l’ansia, fattore emotivo capace di mandare in tilt i circuiti della memoria a qualunque età. «Lo stato d’animo è capace di interferire pesantemente nelle dinamiche del ricordare dai 20 ai 90 anni, quindi non dobbiamo pensare subito a una demenza in questi casi» spiega Federica Alemanno, neuroscienziata, primario del Servizio di Neuropsicologia del Dipartimento di Riabilitazione e Recupero Funzionale dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente all’Università Vita-Salute San Raffaele, a Milano.

«Non a caso gli anglosassoni lo chiamano brain fog, la nebbia cognitiva in grado di offuscare il cervello che deriva spesso dalla tensione nervosa. Gli studi che provano la connessione tra ansia e difficoltà mnemoniche sono numerosi, ma uno dei più interessanti è stato recentemente pubblicato sull’International Journal of Geriatric Psychiatry. Oggi sappiamo che non esiste una sola “memoria”, ma che a costituirla sono componenti distinte con sedi differenti nel cervello. A seconda delle regioni colpite da un invecchiamento fisiologico o patologico, gli effetti sono diversi: c’è chi inizia ad avere difficoltà a ricordare i percorsi, chi le parole e così via».

L’età critica per la perdita di memoria

In generale, la memoria si riduce fisiologicamente col passare del tempo, perché i nostri neuroni diminuiscono in numero e in efficienza. Ma quando inizia a succedere? «Un’età critica è quella dei 50-55 anni» sottolinea la professoressa Alemanno. «Questo perché abbiamo già all’attivo molti anni di lavoro e di “usura”, attraversiamo degli importanti cambiamenti ormonali, soprattutto le donne, il fisico inizia ad accusare gli effetti dell’invecchiamento e, infine, spesso dobbiamo gestire in famiglia due generazioni: i figli non ancora indipendenti e i genitori ormai “over”. Insomma, è un giro di boa dove si concentrano diversi stress che mettono sotto pressione anche le funzioni cognitive».

I test per valutare la perdita di memoria

È proprio quindi attorno ai 50 anni che possono emergere i primi sintomi di difficoltà nel ricordare. Ma, per capire se sono frutto di un invecchiamento precoce patologico (e quindi di una demenza iniziale), di un periodo di ansia importante (caso molto frequente) oppure di squilibri organici come quello ormonale, devono essere opportunamente valutati. «La diagnosi si fa con test neuropsicologici specifici» spiega Alemanno. «Sono fondamentali per discriminare il patologico dal non patologico, individuare le vere cause delle difficoltà mnesiche e agire con precisione per superarle. La valutazione è utile soprattutto nei casi chiamati Mild Cognitive Impairment (MCI), cioè Disturbo Cognitivo Lieve, quella terra di mezzo tra invecchiamento cerebrale fisiologico e patologico, che può rappresentare un fattore di rischio per le demenze come l’Alzheimer. Questa è una situazione che va monitorata nel tempo per vedere se evolve in negativo e, nel caso, iniziare tempestivamente le terapie specifiche».

Il ruolo di ansia e stres

Per valutare eventuali problemi, i test misurano, per esempio, la difficoltà di ricordare in un certo lasso di tempo 5-10 parole non correlate fra loro, o un certo numero di nomi di animali: più le richieste sono semplici, più evidenziano lo stato della memoria. Non è quindi decisivo il fatto, come credono in molti, che il problema sia cancellare la memoria recente, mantenendo quella storica. «È vero che nelle demenze si perdono prima i ricordi più recenti. Ma, spesso, questi possono essere dimenticati anche per colpa dell’ansia e dello stress. Sono due fattori che agiscono come cancellini veloci e immediati: l’ansia, per esempio, distrugge proprio la capacità di apprendere e memorizzare nuove informazioni» specifica la professoressa Alemanno. «Il processo di memorizzazione ha bisogno di lucidità, concentrazione e tranquillità: lo vedo talvolta negli studenti che, se sono troppo in ansia durante un esame, dimenticano intere ore di recentissimo lavoro sui libri».

Anche il multitasking influisce

A livello cerebrale, lo stress cronico inibisce la produzione di nuovi neuroni da parte dell’ippocampo e spegne alcune aree cerebrali deputate allo stoccaggio delle informazioni dando priorità a quelle più importanti. «In queste fasi viene prodotto il cortisolo, l’ormone dello stress che intacca le cellule nervose dell’ippocampo responsabili dell’apprendimento» spiega Federica Alemanno.

«È il motivo per cui anche il cosiddetto multitasking, ossia il fare più cose contemporaneamente, non è un bene per la memoria se diventa una modalità costante nel nostro operare: quando tutto quello che facciamo ha un livello di priorità, non è più possibile filtrare le cose davvero importanti. Il nostro cervello lavora meglio dedicandosi a un’attività alla volta. Allora, paradossalmente, il multitasking non ci velocizza ma ci rende, alla lunga, più lenti e meno performanti. Pensare a tante cose contemporaneamente si può fare per brevi periodi. Se diventa routine non va bene perché fa aumentare il cortisolo, nemico della memoria che oltretutto brucia in fretta il glucosio, indispensabile per rimanere concentrati e combattere la stanchezza da performance».

La ginnastica per la memoria

In caso di demenze come l’Alzheimer, oggi si agisce su tre fronti. «Il primo è quello, molto efficace,  della riabilitazione neuropsicologica cognitiva, una sorta di “ginnastica della memoria” che si fa con neuropsicologi specializzati. Vengono utilizzati protocolli specifici per promuovere la neuroplasticità del cervello, che viene considerato come uno sportivo da tenere costantemente allenato. Questa riabilitazione impiega anche la realtà virtuale (stimola i circuiti cerebrali più profondi) e la telemedicina (con collegamento periodico da casa a ospedale)» spiega la professoressa Alemanno. «I migliori risultati si ottengono abbinando alla riabilitazione cognitiva la neuromodulazione cerebrale non invasiva delle regioni cerebrali più atrofiche. Questa tecnica usa metodiche come la stimolazione magnetica transcranica (TMS) che, trasmettendo particolari impulsi elettromagnetici, agisce positivamente sulle aree più colpite».

E poi ci sono i farmaci. «Quelli già disponibili con il SSN sono sintomatici, cioè agiscono sui sintomi della demenza e li alleviano, senza però poterli curare. La nuova frontiera è quella degli anticorpi monoclonali e di altri meccanismi d’azione per i quali sono già in atto diverse sperimentazioni. La sfida è riuscire a ripulire i neuroni colpiti dalla malattia da quella “nebbia” che li soffoca e li fa morire, agendo sulle cause e ottenendo così una regressione della patologia. La speranza sull’efficacia di nuove terapie è forte: auspichiamo che venga sostenuta da risultati concreti già nel prossimo biennio» conclude l’esperta.

Il circolo vizioso degli ansiolitici

Più sei in ansia, più tendi a usare il farmaco ansiolitico in modo improprio, al punto che non solo non avrà più gli effetti desiderati, ma che la memoria peggiorerà. L’abuso di questo tipo di medicine è infatti uno degli effetti collaterali dello stress: secondo il Rapporto 2022 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) rappresentano il 17% della spesa dei medicinali in fascia C con ricetta. «Sono terapie efficaci su persone sostanzialmente giovani, che non hanno disturbi cognitivi, e che vanno assunte per brevi periodi, sotto stretto controllo medico» dice la neuroscienziata Federica Alemanno.

«Inoltre non basta spegnere il sintomo dell’ansia, occorre superarne le cause, altrimenti le benzodiazepine rischiano di dare assuefazione e di non essere più efficaci. Con il rischio, purtroppo diffuso, di ricorrere al fai-da-te indiscriminato. Che è pericoloso perché può portare al peggioramento dei disturbi cognitivi e quindi anche della memoria, diventando un amplificatore dei problemi d’ansia invece che controllarli, fino a rischiare la depressione o squilibri organici da abuso chimico». Ecco perché è fondamentale, in questi casi, parlarne con il proprio medico o rivolgersi a uno psicoterapeuta.