Che la salute del cervello e quella dell’intestino fossero legate era già in parte noto, ma ora arriva la conferma che il morbo di Parkison potrebbe avere un nesso con i problemi intestinali. A indicarlo è un ampio studio, condotto su 92mila persone negli Usa.

Lo studio: il nesso tra intestino e Parkinson

Stitichezza, difficoltà a deglutire e intestino irritabile potrebbero essere segnali precoci della malattia di Parkinson. È quanto emerso da uno studio piuttosto ampio, pubblicato sulla rivista specializzata Gut e condotto su un campione di pazienti suddivisi in quattro gruppi: persone con il Parkinson, di cui era ignota la causa scatenante; persone con Alzheimer, con problemi cardiovascolari come infarti o aneurismi, e infine un gruppo di controllo, senza alcuna di queste problematiche. Il team statunitense di ricercatori ha scoperto che chi aveva qualcuna delle 18 patologie intestinali ritenute rappresentative (per esempio, il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, problemi di stitichezza, diarrea o sindrome del colon irritabile), aveva una maggiore probabilità di andare incontro al morbo di Parkinson rispetto a chi non soffriva di alcuno di questi problemi. Il campione è stato seguito per cinque anni, confermando il nesso. Si è anche visto che questo tipo di correlazione non trovava conferma nel caso di insorgenza dell’Alzheimer.

Cosa c’entra l’intestino con il Parkinson?

«Occorre fare una premessa importante. La malattia di Parkinson, neurodegenerativa, è nota per lo più per i suoi sintomi motori quali tremore, rigidità e spiccata lentezza nei movimenti, ma può presentare anche sintomi non motori (problematiche di umore e comportamentali, disturbo del sonno, di memoria e problem solving) e disturbi a carico del sistema nervoso autonomo» ricorda il neurologo Gennaro Barbato, esperto di Malattie neurologiche cronico degenerative. «Proprio tra questi ultimi, va detto che più dell’80% delle persone affette da Parkinson presenta disturbi gastrointestinali quali stipsi, nausea e vomito». Lo studio appena pubblicato, dunque, conferma alcune conoscenze sul Parkinson: «Questi disturbi, soprattutto stipsi, depressione, il disturbo del sonno REM e l’iposmia (perdita parziale dell’olfatto, NdR) spesso precedono anche di molti anni la comparsa dei tipici disturbi motori. Non solo, col tempo diventano più impattanti sulla qualità di vita del paziente rispetto a quelli motori», sottolinea Barbato. «Lo studio in oggetto conferma un meccanismo già in larga parte espresso in studi precedenti e cioè che sintomi non-motori quali ansia, depressione, rallentato svuotamento gastrico e stipsi possono interagire insieme al microbiota intestinale e determinare una alterazione dell’asse microbiota-intestino-cervello», aggiunge l’esperto.

I nuovi studi sul Parkinson: “colpa” delle cellule nervose nell’intestino

Secondo i ricercatori, il motivo della maggior incidenza di malattie gastrointestinale in soggetti che sviluppano il Parkinson sta nel fatto che nell’intestino ci sono numerosissime cellule nervose che sono in comunicazione con il cervello. «Negli ultimi anni, il ruolo del microbiota intestinale nelle malattie neurologiche ha ricevuto un notevole interesse. Si è visto, infatti, che l’insieme dei microorganismi che popolano l’intestino manda segnali al sistema nervoso centrale e al sistema nervoso presente nell’intestino stesso attraverso metaboliti, ormoni e il comparto immunitario così da costituire un asse microbiota-intestino-cervello – chiarisce Barbato – Un anomalo funzionamento di questo asse entrerebbe in giuoco nel determinare la malattia di Parkinson e peggiorarla».

L’importanza del microbiota

Non solo. «Recenti studi hanno dimostrato che il microbiota intestinale del paziente parkinsoniano differisce qualitativamente da quello di soggetti sani e queste differenze si fanno via via più marcate con il progredire della malattia. In particolare, mostra una spiccata prevalenza di batteri che sono responsabili di una ridotta produzione di muco intestinale. Al contrario, questi batteri causano un aumento della produzione di acidi grassi a catena corta: il risultato è che si altera la permeabilità intestinale e si attiva un processo infiammatorio lungo il canale intestinale», spiega il neurologo.

Lo sviluppo di terapie contro il Parkinson

La vera sfida è dunque riuscire a proseguire gli studi per arrivare a una terapia che, agendo a livello intestinale, possa anche incidere sull’insorgenza o la progressione del morbo di Parkinson. Secondo Clare Bale, dell’Associazione Parkinson del Regno Unito, i risultati «aggiungono ulteriore peso» all’ipotesi che i problemi intestinali potrebbero rappresentare un sintomo precoce della malattia.

«Lo studio americano certamente conferma in modo più chiaro e netto dati già emersi in studi precedenti. La flora intestinale e una alterata motilità del tratto gastro intestinale possono avere un nesso con le malattie neurodegenerative; diversi studi dimostrerebbero un legame causale e non solo di effetto con queste malattie» spiega Barbato, che però mette in guardia da conclusioni errate: «Non può essere preso in considerazione un singolo disturbo gastrointestinale da far pensare al Parkinson. La stipsi è un importante sintomo precoce premonitore della malattia, ma assume importanza se associato ad altri comuni sintomi premonitori come il disturbo del comportamento del sonno-REM o la depressione o la iposmia e, come risultato di questo studio, se associato a rallentato svuotamento gastrico e sindrome del colon irritabile associato a stipsi. Questi pazienti con più sintomi non-motori premonitori potrebbero essere selezionati per lo studio del microbiota come biomarcatore».

Lo studio italiano sull’esame del sangue

Nel frattempo un altro studio, condotto dal Duke Center for Neurodegeneration and Neurotherapeutics e a cui ha partecipato anche l’italiano Fabio Blandini, neo direttore scientifico della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, apre la strada alla possibilità di diagnosi precoce anche attraverso un esame del sangue. «Un semplice esame del sangue ci permetterebbe di diagnosticare prima la malattia e di iniziare prima le terapie. Inoltre, una diagnosi chiara identificherebbe con precisione i pazienti che potrebbero partecipare a studi farmacologici, portando allo sviluppo di trattamenti migliori e potenzialmente anche di cure» ha spiegato Laurie Sanders, autore senior del lavoro, che ha indicato la possibilità di iniziare prima le terapie. Un passo importante dal momento che la malattia ad oggi colpisce 5 milioni di persone nel mondo e 400mila in Italia, con una diagnosi che, nella maggior parte dei casi, avviene quando circa il 50-70% dei neuroni impiegati nella funzione motoria presenta già un danno irreversibile.