Rachele Somaschini e la fibrosi cistica
Da bambina pensavo di essere come tutti gli altri. Seguo le terapie da quando avevo 30 giorni di vita, ma avevo imparato a fare quel che si doveva senza pensare a nulla, senza farmi domande. Un giorno avevo visto anche mio cugino con l’aerosol e «vedi» mi ero detta «allora è vero che tutti fanno le cose che faccio io». È andata più o meno così finché alle medie non abbiamo studiato genetica e la professoressa di scienze ci ha parlato di fibrosi cistica. Man mano che lei spiegava mettevo insieme i pezzi e iniziavo a dare un nome a quella cosa che mi costringeva a stare attaccata a un apparecchio due o tre ore al giorno, che mi portava ogni mese in ospedale per controlli ed esami. Sì, parlavano di me. Il peggio però è arrivato dopo, quando sul libro ho letto che le persone con questa malattia non raggiungevano l’età adulta. Il mondo mi è crollato addosso, dopo scuola sono corsa da mia madre, le ho chiesto urlando perché non me lo avesse detto prima. «Ora ti spiego» mi ha risposto calma, e ha iniziato a parlare. È stato il giorno in cui ho saputo di avere la fibrosi cistica.
Cos’è la fibrosi cistica
La fibrosi cistica è una malattia invisibile. È causata da due mutazioni del gene Cftr, che causano un malfunzionamento dei principali organi. Il muco ristagna nei bronchi e nei polmoni e io mi ammalo, e più mi ammalo più fatico a respirare. Sono fragile, ogni germe o batterio che incontro diventa un problema, quello che a un’altra persona causa un banale raffreddore può farmi finire in ospedale per due settimane o addirittura per mesi. Però sono anche fortunata, delle due mutazioni che ho io, una sola è molto grave, e questo mi permette di avere una vita meno complicata. Certo, devo tenermi sotto controllo, fare fisioterapia respiratoria, usare il ventilatore polmonare mattina e sera, e prendere un mucchio di farmaci. Persino la colazione deve essere calibrata in un certo modo, per permettere l’assorbimento dei principi attivi.
Come si vive con la fibrosi cistica
Ho sempre vissuto con la sensazione di non avere mai abbastanza tempo, è forse per questo che mi pongo obiettivi sempre ambiziosi, anche troppo, e faccio di tutto per raggiungerli. Correre per me è naturale, devo fare in fretta perché non ci sono certezze nella mia vita, ed essere una pilota di rally è parte di questo, di questa mia continua sfida contro il tempo. Ricordo bene il momento in cui per la prima volta sono salita su una vera auto da rally, era il 2017, quel giorno ho sentito che non sarei voluta scendere più. E un po’ lo devo a mio padre, è lui che a 8 anni mi ha insegnato a guidare con le marce nelle stradine private, ed è stato sempre papà a farmi sentire l’adrenalina delle prime corse in pista, quelle che faceva lui, poi di quelle in montagna. Così eccomi qui, alla mia quinta stagione di rally. Tanti mi chiedono come faccia a sopportare questa fatica, come possa affrontare strade tortuose e prove estenuanti, passare anche dieci ore chiusa in auto. Per questo sport servono prestanza e resistenza, in macchina d’estate si raggiungono anche i 60 gradi, si suda tanto e non aiuta, ma la mia risposta è una sola: ciò che conta è che quando sono lì mi trovo esattamente dove vorrei essere. Per questo curo forma fisica e concentrazione allo spasimo, mi preparo, mangio bene e sto attenta: avere disciplina è la mia carta vincente e mi aiuta a superare le paure e l’ansia.
Non sto troppo bene, come dicono alcuni
Certo, ci vuole pazienza, io non ne ho moltissima, ma cerco di farmela venire. Oggi, per esempio, mi sto preparando per un Rally di Campionato Europeo in Svezia, ma mentre cammino mi viene ancora il fiatone, ho fatto da poco 20 giorni in ospedale e sto cercando di riprendermi. Dovrei stare a casa, ma il campionato è il campionato, non è che posso telefonare agli sponsor e dire «Rimando la gara». E poi non vorrei neanche farlo.
Alcuni pensano che io stia troppo bene per avere la fibrosi cistica, invece la malattia è sempre dentro di me, anche quando non ho sintomi apparenti. Qualche anno fa ho incontrato un batterio molto aggressivo, che ha fatto degenerare la mia situazione, è lì nei miei polmoni, ogni tanto picchia duro, ma a darmi fiducia c’è il pensiero che la ricerca va avanti. Quando sono nata l’aspettativa dei bambini con fibrosi cistica era di circa 18 anni, oggi questo tempo è raddoppiato, e io desidero che si allunghi ancora. È anche per questo che è nato Correre per un respiro, il progetto con cui durante le gare raccogliamo donazioni per la Fondazione ricerca fibrosi cistica, per dare speranza agli altri, a chi come me deve fare i conti con questa malattia.
Il libro: “Correre per un respiro”
«Sei tutti i limiti che superi» mi diceva Angelica, la mia grande amica, l’ho conosciuta in ospedale, abbiamo condiviso un pezzo di strada e tante battaglie per rimetterci in piedi, essere dimesse e ricominciare la vita fuori. Parlavamo, tantissimo. Ma non potevamo abbracciarci, perché per un malato di fibrosi cistica scambiarsi un batterio può essere una condanna a morte, eppure anche se fisicamente non potevamo toccarci ci sono stati momenti in cui Angelica è stata accanto a me e io accanto a lei più di chiunque altro. Fino a che la fibrosi cistica non se l’è portata via. Io però quella frase che ci dicevamo nei periodi no, adesso l’ho tatuata sul braccio e ho voluto farmela scrivere anche sulla mia auto, la ripeto a me stessa come un mantra, per darmi forza ogni volta che devo affrontare una nuova sfida, che ho una gara o che entro in ospedale e la fobia degli aghi mi fa star male. Sì, sono tutti i limiti che supero. E farò di tutto per continuare a correre, per regalarmi un altro pezzo di strada.