Preoccupano le stime di uno studio coordinato dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora e pubblicato su Nature Medicine, secondo cui il 42% degli over 55 negli Stati Uniti è destinato a sviluppare una forma di demenza, specie l’Alzheimer, nel corso della propria vita. Il numero di nuovi casi è destinato inoltre a raddoppiare nei prossimi decenni, fino ad arrivare a un milione l’anno nel 2060.
Le donne rischiano di più: i numeri
Analizzando i dati sanitari di circa 15mila persone e seguendone l’evoluzione dello stato di salute nel tempo, il nuovo studio ha rivisto al rialzo questi numeri. A oggi, il rischio per un cinquantacinquenne di sviluppare demenza durante la vita è stimato al 42%. Le donne hanno più probabilità di ammalarsi (48%) rispetto agli uomini (35%) con un aumento del rischio del 37%; i neri (44%) più dei bianchi (41%); il pericolo sale ulteriormente (59%) se si è portatori di varianti genetiche associate alla malattia. Le probabilità di ammalarsi salgono con l’avanzare dell’età: se tra i 55 e i 75 anni oscilla tra lo 0 e il 4%, dai 75 agli 85 anni si arriva al 4-20% mentre tra gli 85 e i 95 anni le probabilità vanno dal 20 al 40%.
Alzheimer, dati finora sottostimati
«Il rischio di demenza nel corso della vita è una misura fondamentale della salute pubblica che può aumentare la consapevolezza, migliorare l’impegno nella prevenzione e indirizzare l’elaborazione delle politiche», scrivono i ricercatori. «Studi precedenti suggerivano che l’11-14% degli uomini e il 19-23% delle donne negli Stati Uniti avrebbero sviluppato la demenza nel corso della loro vita. Tuttavia, queste stime si basavano su dati più vecchi e su una limitata capacità di accertamento della demenza, il che potenzialmente ne determinava una sottostima».
Come è avvenuto lo studio
Attraverso l’esame approfondito dei campioni di sangue di oltre diecimila persone di mezza età e anziane, i ricercatori hanno collegato i livelli ematici anormali di 38 proteine a un rischio maggiore di sviluppare l’Alzheimer entro cinque anni. Di queste proteine, 16 sembravano predire il rischio di ammalarsi addirittura con vent’anni di anticipo. Sebbene la maggior parte di questi marcatori di rischio possano essere solo sottoprodotti incidentali del lento processo patologico che porta all’Alzheimer, l’analisi ha indicato alti livelli di una proteina, la SVEP1, come probabile contributo causale a quel processo patologico.
Un passo avanti nella ricerca contro l’Alzheimer
«Questa è l’analisi più completa del suo genere fino ad oggi eseguita e getta luce su molteplici percorsi biologici che sono collegati all’Alzheimer», afferma il dottor Josef Coresh, tra gli autori dello studio. «Alcune delle proteine che abbiamo scoperto non sono solo indicatori che la malattia potrebbe verificarsi, ma un loro sottoinsieme può essere causalmente rilevante, il che è eccitante perché aumenta la possibilità di colpire queste proteine con trattamenti futuri». I risultati rappresentano un deciso passo avanti nella comprensione dei meccanismi biologici alla base dell’Alzheimer e potrebbero aprire la strada a nuove terapie preventive.
Nonostante decenni di studi intensivi, attualmente non esistono trattamenti in grado di rallentare, fermare o invertire il processo della malattia. Tuttavia, la possibilità di identificare il rischio di Alzheimer prima della comparsa dei sintomi offre nuove speranze per lo sviluppo di trattamenti efficaci.