Si chiama triplo negativo ed è la forma di tumore al seno più aggressiva e con meno terapie a disposizione. Ma per fortuna dall’ultimo congresso internazionale di oncologia arrivano risultati di studi scientifici che fanno ben sperare. E l’indicazione ad alzare la guardia su alcune forme rare di tumore che hanno un comune denominatore con quelli al seno e alle ovaie.

Tumore al seno triplo negativo: i legami con i tumori più rari

Un legame insospettabile, individuato grazie alla ricerca. «Io sono cresciuto “respirando” la vitalità che circonda ogni singolo lavoro scientifico e ho assistito in prima persona a cambiamenti epocali» sottolinea Paolo Veronesi, Direttore del Programma Senologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e Presidente della Fondazione Veronesi. «Rispetto a un tempo, oggi abbiamo dalla nostra innovazioni tecnologiche che permettono di accelerare gli studi e quindi di offrire nuove strategie in tempi più brevi rispetto a un tempo. E questo è positivo sempre, ma ancora di più quando la diagnosi riguarda un tumore aggressivo come il triplo negativo. Si chiama così perché non possiede i recettori ormonali per estrogeni e progesterone e neanche quello per HER2».

Paolo Veronesi, Direttore del Programma Senologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e Presidente della Fondazione Veronesi

Professor Veronesi, dalla scoperta del tumore al seno triplo negativo a oggi, cos’è cambiato?

«Per fortuna, molto. Ai tempi, le uniche strade percorribili erano l’intervento chirurgico e la chemioterapia, spesso però con esiti non buoni. Oggi continua a esserci la chemioterapia, ma abbinata all’immunoterapia che ha la capacità di dare una sferzata alle cellule sane del sistema immunitario e di indurle ad attivarsi contro le cellule malate. Soprattutto se la neoplasia non è piccolissima, la terapia viene effettuata prima dell’intervento chirurgico, con risultati spesso molto buoni e la regressione della malattia. Oggi, al termine del ciclo di terapia viene effettuato l’intervento chirurgico, ma grazie alla ricerca presto non sarà più così. In caso di regressione completa stiamo studiando la possibilità di effettuare una VABB, una particolare biopsia che prevede l’analisi di frammenti del tessuto dove c’era il tumore. Se si dimostra l’assenza di cellule malate, a breve verrà eseguito solo un ciclo di radioterapia».

Che cosa lo rende così aggressivo?

«Il problema del triplo negativo è che cresce in fretta, tanto che è difficile prevenirlo perché si può sviluppare tra una mammografia e l’altra. Ma le donne sono sempre più attente alla salute del seno e questo fa sì che siano loro le prime a intercettare noduli sospetti con l’autopalpazione, oppure semplicemente durante la doccia. In questo caso, è vietato perdere tempo, ma occorre rivolgersi subito a un senologo per evitare diagnosi errate. Per la sua natura, infatti, il triplo negativo all’inizio può sembrare una cisti, specialmente nelle donne giovani: individuarlo subito, quando ha una dimensione inferiore al centimetro, significa il più delle volte risolvere la malattia con l’asportazione chirurgica, seguita dalle terapie adiuvanti».

Oggi è in corso un dibattito sulla mammografia personalizzata: è una soluzione per diagnosi sempre più precoci?

«Per risponderle parto da una premessa: il tumore al seno si sviluppa per un mix di ragioni, diverse per ogni donna. Giocano un ruolo fattori noti da tempo, come quelli legati alla vita rirpoduttiva, mentre menopausa precoce o tardiva possono aumentare il rischio. Oggi manca inoltre la protezione offerta da gravidanza e allattamento in giovane età. Altre acquisizioni sono invece più recenti: importantissimo lo stile di vita, alimentazione e attività fisica. Ed è noto il ruolo di primo piano della genetica nel 5-10% dei casi. Altrettanto fondamentale inoltre è la densità della ghiandola mammaria. E aggiungo che oggi si dà molta attenzione anche alla presenza di altre forme tumorali che all’apparenza non hanno nulla a che vedere con il tumore al seno, ma che possono essere causate dalla stessa predisposizione. Alla luce di tutto questo allora l’obiettivo è di “educare” le giovani donne a sottoporsi intorno ai 30 anni alla prima visita senologica e, in base alle informazioni raccolte, impostare un calendario di controlli personalizzato. Va superato quindi lo schema di una mammografia biennale uguale per tutte a partire dai 45 oppure 50 anni a seconda della Regione. Le faccio un esempio. Oggi in caso di familiarità importante, la sorveglianza deve attivarsi al più presto e deve essere intensiva. Ma nel caso di una signora senza particolari fattori di rischio, con un seno adiposo, il controllo potrebbe essere limitato a una mammografia ogni 2-3 anni. Per intenderci, è come si sta facendo ora con l’HPV test per la prevenzione del tumore del collo dell’utero, che in caso di esito negativo, viene ripetuto ogni cinque anni».

Si parla sempre di più di forme rare che hanno un legame con il tumore del seno, che cosa è importante sapere?

«Da anni è noto che i BRCA1 e BRCA2, i geni Jolie per intenderci, possono essere responsabili della predisposizione ereditaria allo sviluppo dei tumori della mammella e dell’ovaio. Ma non solo. Osservando la presenza ricorrente in certe famiglie anche di altre malattie oncologiche, i ricercatori hanno individuato la presenza del BRCA anche nel caso di tumore alla mammella maschile, della prostata e, per entrambi i sessi, del pancreas. Alcuni rari tumori dello stomaco inoltre, condividono una predisposizione ereditaria con il carcinoma lobulare della mammella (mutazione gene CDH1). Si tratta di forme rare, certo, ma da non sottovalutare nella identificazione del rischio e, proprio per questo, occorre avere informazioni complete sulla famiglia: quando ci sono almeno tre casi di tumore della mammella o delle ovaie in famiglia si può attivare l’approfondimento del rischio genetico. In questi casi, e torno alla domanda che mi ha fatto prima, i controlli e le eventuali strategie preventive sono già personalizzate, al fine di non farsi cogliere di sorpresa, nell’eventualità che il tumore si presenti».

La diagnosi di tumore al seno metastatico deve ancora fare paura?

«Le rispondo con un dato: oggi ci sono circa 50 mila donne che convivono con questa forma e in molti casi è stata raggiunta la cronicizzazione. La nota positiva è che saranno sempre di più e questo ancora una volta grazie alla ricerca. Abbiamo farmaci innovativi che tengono sotto controllo la malattia, e che permettono una vita pressoché normale perché hanno pochi effetti collaterali. E i progressi continuano. Si stanno aprendo nuove possibilità, che prevedono in casi selezionati una terapia mirata anche sulle metastasi con chirurgia, o meglio con l’utilizzo di tecniche meno invasive come la termoablazione, cioè l’uso del calore per uccidere le cellule metastatiche, oppure il loro congelamento con la crioablazione».

Lo studio in corso sul tumore al seno triplo negativo

FONDAZIONE VERONESI da più di vent’anni finanzia grandi progetti di ricerca di altissimo profilo con l’obiettivo di trovare strategie innovative, nuovi farmaci e nuove combinazioni terapeutiche al fine di aumentare la percentuale di sopravvivenza e migliorare la qualità di vita delle pazienti. Come il lavoro scientifico che sta sviluppando Sabrina Zema, ricercatrice in Medicina Molecolare all’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Oggetto? Il tumore al seno triplo negativo.

Sabrina Zema, ricercatrice in Medicina Molecolare all’Università degli Studi di Roma La Sapienza

Dottoressa Zema, che cosa vuole dimostrare il suo studio?

«L’obiettivo è quello di conoscere in maniera più approfondita Maml1, una proteina che è presente in elevate quantità nelle cellule tumorali fin dall’inizio della malattia. Vogliamo scoprire, analizzando campioni delle biopsie effettuate alla diagnosi, se la proteina è presente sempre in caso di tumore al seno triplo negativo, oppure solo in casi limitati».
Potrebbe avere altri ruoli questa proteina?

«Sì, e in parte lo sappiamo già. Maml1 ha la capacità di stimolare la proliferazione delle cellule cancerose e di impedire ai farmaci chemioterapici di agire. Sono due azioni negative, che portano drammaticamente alla formazione di metastasi».
Il passo successivo?

«In un futuro speriamo prossimo, lo scopo è di aggiungere la ricerca della proteina
Maml1 tra gli esami alla diagnosi. Questo porterà a grandi cambiamenti, perché permetterà di identificare le donne che potrebbero essere a rischio di sviluppare una resistenza ai chemioterapici e di aggravarsi. Sarà anche il punto di partenza per lo sviluppo di nuovi principi attivi, in grado di “sfondare” il muro alzato da Maml1 e far sì che i chemioterapici possano agire senza difficoltà».