A chi non è mai capitato di sentirsi bloccato? Rompere una storia d’amore, cambiare lavoro, iniziare un nuovo progetto: per ognuno il motivo può essere diverso ma il comune denominatore è sempre la necessità di un salto nel buio.
Osare è difficile, perché, instancabile, c’è una voce dentro di noi che sussurra: “Non ce la farai, non puoi farcela”. Imparare a dare fiducia prima di tutto a se stessi è una sfida grande e meravigliosa, a cui tanti di noi non sono stati abituati, perché il contesto familiare, il luogo dove ogni bambino avrebbe diritto di essere visto e considerato, di frequente di trasforma in uno spazio di giudizio, sfiducia e svalutazione delle proprie possibilità.
Attenzione, però: l’ansia, così come le critiche, possono avere anche un risvolto positivo perché ci aiutano a tirar fuori il meglio di noi, sognare di volare più alto e iniziare a credere un po’ di più, a dispetto di tutti, in ciò che desideriamo veramente.
Che cos’è l’ansia da prestazione?
«L’ansia da prestazione ha un andamento a curva. Questo che cosa significa?» spiega la Dr.ssa Elena Lupo, Psicologa e Psicoterapeuta: «C’è bisogno di un piccolo livello di ansia per riuscire a svolgere bene i compiti, superare le prove e andare avanti nelle cose». L’ansia, a piccole dosi, è necessaria: dobbiamo immaginarla come una curva che, fino a un certo livello, serve perché significa essere attenti, “stare sul pezzo”. Da un certo punto della curva in poi, invece, diventa controproducente. Dalle ricerche sappiamo che l’ansia interferisce con i processi cerebrali e influenza l’attività del cervello alterando le capacità associative.
Ma che cos’è l’ansia a livello cerebrale? «Dal punto di vista fisiologico l’ansia genera una serie di cascate neurochimiche di vario genere nel cervello. Un neurotrasmettitore importante nel nostro cervello è la dopamina, coinvolta nei meccanismi dell’attenzione. Quando siamo molto attenti vuole anche dire che abbiamo un elevato stato di vigilanza, e in questo senso lo stato di vigilanza può essere positivo e influire positivamente sulla prestazione. Quando invece lo stato di vigilanza si alza eccessivamente e soprattutto rimane così stabile per svariato tempo, allora determina una simpaticotonia psico-corporea che determinerà uno stato fisiologico di eccessivo “arousal”. Questo verrà percepito a livello psicologico come ansia, e interferirá negativamente con tutte le nostre attività. Una sorta di corto circuito. Al contrario, quando sostanze come dopamina e noradrenalina sono a buoni livelli, controllabili, danno attivazione, ovvero quello stato di vigilanza che è necessario per capire le cose e applicarsi con impegno. Possiamo perciò osservare un ruolo positivo dell’ansia e un altro, estremo, che è in grado di bloccarci… anche se di solito ciò che noi identifichiamo con ansia è solo la sua accezione negativa» continua la Dr.ssa Lupo.
Un team di ricerca appartenente al Cold Spring Harbor Laboratory, Stati Uniti, analizzando il meccanismo di accensione e spegnimento dell’ansia, ha individuato una sorta di interruttore nella mutazione del Bdnf, un messaggero chimico che permette al Ptv, il nucleo paraventricolare del talamo, di esercitare il controllo sull’amigdala. All’interno del cervello, quindi, avrebbero un ruolo centrale nella percezione e gestione dell’ansia amigdala e talamo, che funziona come sensore in grado di registrare le tensioni fisiche e psicologiche che viviamo.
La paura del giudizio
Qual è la differenza fra paura e ansia? Per ansia si intende uno stato che può scatenarsi anche in assenza di stimolo diretto. Per esempio, pur trovandomi in una situazione di tranquillità esterna posso percepirmi ansioso e in una condizione di forte agitazione. La paura, invece, è legata a uno stimolo: io ho paura di qualcosa.
La difficoltà più grande è che in molti casi capita di non sapere esattamente il vero motivo dietro le nostre paure: non siamo abituati a indagare in profondità le nostre emozioni, ecco perché, per superare i blocchi, diventa importante iniziare a esercitarci e imparare a interrogare la nostra paura chiedendo a noi stessi che cosa proviamo veramente e dove essa ci stia conducendo.
La paura del fallimento spesso è strettamente legata alla paura del giudizio, alla paura di deludere se stessi e gli altri. Dietro questo meccanismo si nasconde un pensiero di questo tipo: «Se fallisco quale immagine darò di me? Nei fallimenti l’immagine che abbiamo di noi stessi si trasforma, soprattutto quando si tratta di insuccessi a cui teniamo: essi possono influenzare anche l’immagine di noi stessi che che diamo agli altri».
Che cosa potrebbe succedere se tu continuassi ad agire in base a come vivi? Probabilmente nulla di particolare: avresti giornate simili a oggi. Continueresti a emozionarti, sognare e desiderare ciò che ti sta attraversando il cuore e la mente; ti sentiresti bloccata come lo sei oggi. Quando osserviamo la nostra vita con attenzione e onestà riusciamo a individuare i comportamenti e gli schemi di pensiero che ci trattengono dal fare ciò che vorremmo: iniziare a vederli costituisce certamente un buon passo, ma la vera sfida in grado di portarci a una rivoluzione, mentale e di vita, è riuscire a cambiarli.
Che cosa significa per te avere successo? Nella società in cui viviamo l’idea del successo appare fortemente legata a un’immagine di sé vincente, sorridente, appagata. I social, dove si tende a condividere soprattutto (per non dire quasi esclusivamente) ciò che ci fa apparire fortunati, felici, speciali, stanno diventano uno specchio del bisogno estremo di sentirci sicuri grazie a una conferma esterna, a cui corrisponde un’incapacità nel considerare l’esistenza come un viaggio esperienziale, fatto di alti e bassi, di evoluzioni e sperimentazione.
Se il tuo concetto di successo è correlato, nel profondo, all’idea di dover far bene, avere risultati positivi e vincenti, è chiaro che iniziare un nuovo progetto non potrà che atterrirti. Viceversa, è molto diverso quando sentiamo di voler andare avanti verso una nuova strada trainati da entusiasmo e curiosità, coinvolti dal sentimento autentico di stare facendo qualcosa che per noi vale la pena (e che ci entusiasma!), a prescindere da come andrà.
Bambini e apprendimento
Howard Saul Becker, sociologo, a metà del Novecento sviluppa quella che diventerà nota come Labelling Theory, teoria dell’etichettamento. Nel suo esperimento Becker sostituisce le pagelle degli alunni considerati più meritevoli con quelle dei bambini valutati meno bravi, e poi, a loro insaputa, invita degli insegnanti a condurre le classi così composte. Il risultato? I bambini pessimi, che gli insegnanti credevano essere più bravi, sono effettivamente diventati più bravi, al contrario, gli studenti che gli insegnanti avevano identificato come pessimi hanno mostrato un peggioramento.
«Nella costruzione dell’autostima occupa un ruolo fondamentale il potere dell’influenza della visione dell’adulto sul bambino, che naturalmente va oltre l’insegnamento e riguarda gli educatori, così come il ruolo dei genitori» spiega l’esperta. Da piccoli siamo stati visti, accettati, considerati per ciò che avevamo da dare al mondo… oppure ci siamo sentiti svalutati, sbagliati, limitati. «Questo condizionamento, nel quale il bambino tende a identificarsi producendo una certa immagine di sé, è difficile da modificare nell’età adulta perché più passa il tempo più questa identità che ci siamo dati tende a irrigidirsi e diventare definitiva». Più è negativa, più la paura del fallimento aumenta.
Ansia da perfomance VS Ansia relazionale
Negli adulti, è molto diversa la differenza fra l’ansia da performance legata al lavoro e l’ansia relazionale. Un conto è l’ansia di fallimento verso le relazioni, un altro è vivere l’ansia di fallimento nei confronti del lavoro: molto dipende dai valori familiari che ci sono stati trasmessi.
Se sono cresciuta con l’idea che il mio compito nella vita sia avere figli e essere una brava moglie, per me potrebbe diventare molto difficile affrontare un divorzio: l’ansia da fallimento più grande nell’esistenza per questo tipo di persona sarà relazionale, perché sarà molto più terrorizzata dalla crisi del matrimonio che dalla paura di non conseguire ottimi risultati sul lavoro.
Al contrario, se ho vissuto in una famiglia dove il valore individuale del lavoro è fortemente connesso al dimostrare di essere capaci, allora la mia ansia avrà molto più a che fare con la possibilità di insuccessi sul lavoro. Ci dibattiamo fra questi due aspetti e uno influenza l’altro.
Esistono persone che hanno livelli troppo alti di ansia da lavoro… e allora lavorano troppo; questo va a discapito delle loro relazioni. Molto spesso in casi come questo le persone riescono a percepire la loro ansia da lavoro, ma non quella che dovrebbero avere verso le relazioni. Percepiamo un’ansia focalizzata solo verso la parte della personalità che riteniamo più importante secondo i mandati familiari.
Invece, anche in questo caso, è importante riconoscere un minimo d’ansia perché se io, pur di non fallire nel lavoro, rischio di perdere la famiglia o una relazione affettiva, allora ho bisogno di percepire quell’ansia per accorgermi che c’è un problema ed evitare di perdere le mie relazioni, dunque cercare una soluzione costruttiva per la mia vita. Lo stesso vale al contrario: se sono totalmente presa dalle mie relazioni, non sento l’ansia che invece dovrei sentire, e finirò per perdere il lavoro.
L’ansia come risorsa per la resilienza
La difficoltà è imparare a gestire l’ansia trattandola non da nemica, bensì come risorsa e una spia in grado di segnalare che c’è qualcosa che non è in equilibrio. Elena Lupo, che in Italia si occupa del Progetto Persone Altamente Sensibili, aggiunge: «Dagli Stati Uniti, attraverso il lavoro di Elaine Aron e Jacquelyn Strickland, sta arrivando un concetto nuovo: FOMA, un acronimo che in inglese sta per fear of missing anything, la paura di perdere qualsiasi cosa. È la paura di scegliere. Abbiamo paura di perdere dei momenti, delle occasioni importanti, dei dettagli. Una sorta di perfezionismo portato all’estremo che ci porta a provare ansia se la giornata non è andata esattamente come l’avevamo immaginata, se il pranzo che avevamo scelto poi non si rivela come l’avevamo pensato o la foto che abbiamo fatto non è venuta perfetta come volevamo».
Riconoscere la nostra profonda paura di perdere, che ci rende estremamente vulnerabili, ma anche pienamente umani, è la presa di coscienza che sì, possiamo cadere: farsi male capita. Eppure ci rialzeremo, ancora una volta. La paura di sbagliare non può diventare una scusa per non provarci, esporsi. Nutrire la nostra fiducia. Sognare.