In Afghanistan nascono bambini, e intorno muoiono persone. È un luogo dove la crudeltà convive con la poesia. Un luogo tra i più poveri al mondo, dove però la vita rivendica la sua volontà d’essere, a discapito di chi la vita la dà. Questo Paese, infatti, ha il tasso di mortalità materna tra i più alti al mondo: su 100mila neonati, muoiono 638 donne (dati Oms). E tra i 15 e i 49 anni (l’età fertile), il tasso di mortalità femminile è più alto del 50 per cento rispetto a quello maschile.
Donne e bambini: i più vulnerabili in Afghanistan
Le donne, insieme ai bambini, sono le categorie più vulnerabili per l’inadeguatezza delle cure materne e neonatali. Ora, un decreto del Ministero della Salute Pubblica afghana ha sospeso i corsi di formazione in ambito sanitario per le donne, proprio mentre pochi mesi fa l’Agenzia Onu per la salute riproduttiva (Unfpa) dichiarava «l’urgente bisogno di altre 18.000 ostetriche qualificate per soddisfare la domanda di assistenza al parto» in Afghanistan. Un controsenso mostruoso e dalle conseguenze potenzialmente devastanti.
In Afghanistan le donne possono essere curate solo da donne
Erano 17mila le ragazze che ancora studiavano e che hanno lasciato le aule, in un Paese in cui dal 2022 le bambine vengono ritirate da scuola a 12 anni. Quelle ragazze rappresentano una generazione di donne che potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte per migliaia di altre donne e i loro neonati. In Afghanistan infatti assistere le donne come medico o infermiere è una prerogativa femminile: un uomo non può visitare una donna senza la presenza di un tutore, così come per compiere qualsiasi pratica sanitaria sul suo corpo, occorre l’autorizzazione da parte di un uomo, che sia marito, fratello, zio. Facile immaginare come questo decreto possa avere un impatto drammatico sul sistema sanitario del paese e su tutta la popolazione, in particolare femminile.
Emergency e di IRC per le donne dell’Afghanistan
Eppure dei segnali di cambiamento ci sono. Lo testimonia Emergency, a cui chiediamo di fotografare, dal proprio osservatorio, cosa sta succedendo in Afghanistan. Proprio quest’anno la Ong che tutti conosciamo compie 30 anni, esattamente come Italian Resuscitation Council (IRC), società scientifica senza scopo di lucro, accreditata al Ministero della Salute, che riunisce medici, infermieri e operatori esperti in rianimazione cardiopolmonare. Con IRC Emergency due anni fa ha avviato una collaborazione per fornire formazione certificata sull’assistenza ai pazienti in condizioni di emergenza-urgenza. Ma non solo. I medici e gli infermieri di Emergency attraverso missioni in vari Paesi esteri, tra cui l’Afghanistan, stanno formando gli operatori sanitari dei diversi Paesi affinché loro stessi diventino formatori, capaci di diffondere le competenze acquisite, in una catena virtuosa fatta di donne e uomini tra medici, infermieri e ostetriche, tutti formati secondo criteri riconosciuti a livello internazionale, in modo che la qualità delle cure sia uniforme.
Le donne lavorano ancora negli ospedali
La dottoressa Manuela Cormio, medico anestesista e rianimatore di Emergency, è appena rientrata dall’Afghanistan e racconta come la Ong sia riuscita, in più di 25 anni di presenza nel Paese, a farsi riconoscere e accreditare presso i governi che si sono succeduti. Un lavoro non semplice di tessitura e diplomazia, grazie al quale, al momento, più del 30 per cento del personale ospedaliero è ancora rappresentato da donne: «Nei centri di Lashkar-gah, Kabul e Anabah abbiamo realizzato tre ospedali dove continuano a lavorare 400 donne. In questi anni, nonostante il cambio del governo, le ragazze che lavoravano o studiavano nei nostri ospedali sono rimaste al loro posto. E alcune si sono laureate. Questi centri, infatti, distribuiti in modo uniforme nel Paese, sono anche luoghi di formazione post-laurea in quattro discipline: chirurgia e traumatologia, pediatria, ginecologia e ostetricia, anestesia, tutte ufficialmente riconosciute dal ministero della Salute afgano. Un accreditamento importante, che ci permette di garantire le cure e, nello stesso tempo, formare gli operatori, facendoli specializzare seguendo rigidi criteri internazionali».
Accesso alle cure equo per tutti
Proprio per garantire il rispetto di questi criteri, Emergency è stata affiancata da IRC. Una delle figure più importanti in questo percorso verso l’equità e la dignità delle cure, è la dottoressa Samantha Di Marco, coordinatrice del Comitato di Formazione di Italian Resuscitation Council e, quando non è in missione, responsabile dell’Area Professionale Infermieri Emergenza Urgenza della ASL 5 Spezzino. La raggiungiamo in una pausa tra una missione e l’altra: nel 2023 in Sudan, nel 2024 in Afghanistan, dove attende di tornare nel 2025. «Il mio compito – ci spiega – è partire dalle linee guida, che sono la mappa dei migliori trattamenti medici, per far sì che nel mondo reale i professionisti usino le migliori pratiche». Si tratta di insegnare a insegnare le migliori pratiche nei percorsi formativi. Ma perché è così importante? «I nostri corsi di medicina d’urgenza sono uguali in tutto il mondo» spiega la dottoressa Di Marco. «È questa la loro forza, perché l’adesione a criteri uniformi, pur proveniendo da formazioni diverse, garantisce parità di cure in qualsiasi ospedale. Ci si adatta, certo, al contesto, per esempio cercando dei farmaci equivalenti se nel Paese in cui operiamo gli originali non siano disponibili. Ma, di base, forniamo le migliori linee guida nel campo della medicina d’urgenza in tutto il mondo: insegniamo ad applicarle e a insegnarle». Una garanzia, insomma, di equità nell’accesso alle terapie, da qualsiasi parte si provenga.
I tre ospedali di Emergency in Afghanistan: enclave di umanità
Negli anni, i tre ospedali di Emergency in Afghanistan sono diventati una sorta di roccaforte di dignità e libertà, con regole specifiche, che il governo locale rispetta. «Le donne che studiano e lavorano con noi, nelle zone più remote arrivano con il burqa, ma lo lasciano fuori dalla porta» spiega la dottoressa Cormio. «Anche nei momenti più bui, quando sono stati varati i decreti contro le donne, che per fortuna non intaccavano il personale sanitario, le nostre infermiere, dottoresse e ostetriche non hanno mai smesso di lavorare. Stabilivamo per loro orari protetti e tutele specifiche, ma nessuna ha abbandonato l’ospedale. Sono donne tenaci e determinate, che in molti casi hanno già famiglia e figli, cresciute in 40 anni di guerra tra privazioni e povertà, desiderose proprio per questo di mettersi a servizio del proprio Paese». Ma come si concilia tutto ciò con la nuova linea dettata dai talebani? «È difficile prevedere cosa succederà: le regole che vengono emanate si applicano da sempre in modo non uniforme per la complessità del sistema, della sua burocrazia e la diversità del territorio». È in queste pieghe che può sbocciare un futuro diverso anche per le donne. Ed è in queste pieghe che, pazienti, si infilano molti padri: medici e infermieri che, appreso il metodo per insegnare, lo trasmettono a casa alle figlie continuando così ad alimentare il sogno di una nuova generazione di donne: quella che verrà.
Donne in Afghanistan: poca prevenzione e tanta miseria
Nel frattempo Emergency è riuscita a farsi accreditare, accanto agli ospedali governativi. Questione di fiducia, come quella che medici e infermieri si sono guadagnati sul campo viaggiando per il Paese con le loro ambulanze e operando negli oltre gli 40 posti di primo soccorso e centri di salute primaria sparsi per il Paese. «Qui non esiste un sistema di primo soccorso: ci siamo noi con i nostri mezzi che man mano cerchiamo di penetrare nei territori più impervi offrendo cure e contraccezione. Le persone col tempo si avvicinano, le donne vengono accompagnate dai maschi della famiglia, mandati a loro volta dalla comunità e man mano stiamo cercando di creare una cultura della prevenzione» dice la dottoressa Cormio. Questo lavoro è apprezzato dal governo, ma non è facile in un Paese martoriato da 40 anni di guerra, con le scuole distrutte, dove non esistono strade e pronto soccorso, dove nelle zone rurali ancora le donne partoriscono in casa, e spesso muoiono. Dove non si sa cosa sia lo screening neonatale. «Le donne per cultura devono avere figli, alcune arrivano anche a 12 bambini: per questo cerchiamo a ogni parto di preservarne l’utero, in modo da ridurre le complicanze che, comunque, esistono» aggiunge la dottoressa Cormio. Molti bambini nascono con deformità per la malnutrizione e le condizioni della madre: un piccolo su 18 muore prima dei 5 anni, l’80 per cento nel primo anno di vita, un neonato su 45 prima di aver raggiunto il primo mese. È molto importante quindi che le donne possano continuare ad assistere le donne.
Anabah, una culla tra i monti
«Insieme a Emergency siamo stati nelle zone più remote tra cui l’ospedale di Anabah, nella Valle del Panshir: una culla tra le montagne, un sogno che si è concretizzato nel 2003 e che da allora ha fatto nascere 70mila bambini e visitare 470mila donne. Un luogo magico, chiamato l’ospedale delle donne, con una popolazione femminile enorme, dove le donne accedono a cure di qualità – e di conseguenza i loro bambini – assistite e curate da altre donne. Qui arrivano spesso in condizioni critiche, esasperate dalla crisi economica e dalla mancanza di fondi dovuta alla fine della guerra, che limita ancora di più gli spostamenti». Anche questo fa aumentare il rischio che le donne si lascino curare sempre meno.