Donne che cambiano la vita di altre donne e a volte perfino la salvano. Alessandra Campedelli, 49 anni, italiana di origine trentine, ex giocatrice della Nazionale italiana di hockey su prato, allena la Nazionale femminile di pallavolo del Pakistan, un Paese che fatica ancora a immaginare le donne in carriera, figuriamoci impegnate nell’attività sportiva agonistica. Qui resiste, ancorata stretta alla tradizione culturale tribale e religiosa, l’idea dello sport che è un lusso per pochi e soprattutto non è cosa da donne. Eppure niente di tutto questo ha spaventato l’allenatrice Campedelli che, quando alcuni mesi fa ha ricevuto la proposta, non ci ha pensato due volte ed è partita alla volta di Islamabad con la voglia di mettersi ancora una volta in gioco.

Alessandra Campedelli aveva già allenato la Nazionale femminile sorde

Professionista di lungo corso, ha alle spalle esperienze straordinarie: ha allenato per sei stagioni la Nazionale femminile di pallavolo sorde, vincendo medaglie importanti, un argento alle Deaflympics, i Giochi Olimpici per atleti sordi, nel 2017, un oro agli Europei 2019 e un argento ai Mondiali 2020. Un’esperienza che le è servita anche per capire meglio suo figlio, anche lui sordo, giocatore di volley che con il Piacenza è quarto in Superlega. Ma non solo: nel curriculum di Alessandra c’è stata la Nazionale femminile di pallavolo iraniana, un progetto purtroppo naufragato dopo l’ennesima intimidazione da parte del regime nei confronti delle atlete.

Ha voluto portare le giocatrici pakistane in Italia

Alessandra Campedelli con la squadra pakistana
La coach con la squadra che è riuscita a portare a maggio in Italia.

Tornata in Italia ecco la chiamata che probabilmente non si aspettava: destinazione Pakistan. Alessandra è partita con in valigia la determinazione che l’ha già portata a realizzare un grande progetto:  portare le atlete in Italia, regalando loro un sogno e mostrando finalmente a queste giocatrici che i campi da gioco con le reti fissate a pali non pericolanti esistono davvero.

Partiamo da qui, dal viaggio della squadra in Italia. Come le è venuta l’idea e come è riuscita a organizzare un tour così complesso?

«Appena arrivata a Islamabad ho constatato una situazione difficile. In Iran mi ero già confrontata con una realtà complicata dovuta principalmente alla condizione delle donne. Ho toccato con mano le discriminazioni a partire dalla sistemazione: a me una stanzetta piccola e buia, al mio collega uomo una suite in albergo. Ma in Pakistan ho trovato anche la difficoltà economica. Non parlo solo dell’attrezzatura, praticamente inesistente, del fatto che mancano perfino le scarpe adatte, ma anche dei pasti, spesso insufficienti per le atlete.

Gli abiti che usano non sono fatti con materiali traspiranti e i chador devono essere appuntati con gli spilli perché non esiste in tutto il Paese un fornitore di divise femminili sportive

E gli spilli sono pericolosi, soprattutto quando si prendono pallonate in testa. Una di loro poi gioca con il velo integrale ed è una vera sofferenza. Portarle in Italia mi sembrava il miglior regalo da fare a ragazze così svantaggiate ma così determinate. L’organizzazione poi è stata piuttosto complicata, c’erano i visti da fare, i fondi da trovare. Ma un pizzico di fortuna ci ha fatto svoltare. Un imprenditore, Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, ha letto di noi e ci ha permesso di coronare il sogno. Non ci potevo credere!».

Lo sport dà a queste ragazze una grande opportunità

Quali sono state le difficoltà maggiori durante la loro permanenza qui?

«Sono state tre settimane davvero intense. Per molte era il primo viaggio all’estero, il primo volo in aereo: ho dovuto fare un rapido corso di come ci si comporta, solo un paio di loro parla inglese. Al ristorante sono rimaste basite davanti alle cosce di pollo: non sapevano come mangiarle. Altre non riuscivano a usare il coltello per tagliare la pizza. Cose per noi talmente banali che non ci rendiamo nemmeno conto. Prima di partire poi la Federazione ha convocato le famiglie di origine per far firmare un documento in cui si impegnavano a un risarcimento, nel caso le ragazze decidessero di fuggire e di non tornare indietro.

Peccato che la maggior parte di queste famiglie non ha un conto corrente e per far vivere alle figlie un’esperienza così importante hanno dovuto ipotecare la loro stessa vita, pena il carcere

Senza la pallavolo queste ragazze non sarebbero mai arrivate a visitare il nostro Paese, lo sport ha regalato loro una grande opportunità che si porteranno nel cuore per tutta la vita e che racconteranno ai loro parenti. Molte arrivano da villaggi di origine pashtun, al confine con l’Afghanistan, e per alcune giocare nella Nazionale significa salvarsi da destini già scritti. Una di loro aveva un matrimonio combinato che l’attendeva a casa. Aveva l’angoscia negli occhi. Ho fatto il diavolo a quattro per non lasciarla andare e sono riuscita a portarla con la squadra in Italia».

Occorre forgiare campionesse che siano anche donne consapevoli

Cosa ha imparato da questa esperienza?

«Purtroppo la Nazionale è formata da ragazze che vanno dai 18 ai 28 anni e hanno iniziato a giocare tra i 17 e i 18 anni. Tardi per uno sviluppo motorio adeguato e tardi anche per un cambiamento culturale radicale. Bisogna invece lavorare e investire sulle nuove generazioni, solo così potranno avere davvero le opportunità delle altre atlete. Il viaggio in Italia è stato determinante per farmi aprire gli occhi e capire meglio. Con Empower, la Onlus no profit con sede a New York che costruisce opportunità per le donne attraverso lo sport e che ci ha accompagnato in questa avventura, abbiamo capito che dobbiamo andare più a fondo: partire dalle scuole, sviluppare un vero modello culturale».

Una rivoluzione a partire dallo sport?

«Esattamente. Questa sarà la vera ribellione del futuro. L’emancipazione femminile dovrà partire dallo sport ma dovrà viaggiare di pari passo con uno sviluppo culturale. E forgiare campionesse che siano prima di tutto donne consapevoli. Organizzeremo dei campus in diverse città, non solo a Islamabad, ma anche a Lahore, Karachi, dove bambine di dieci, dodici anni, potranno allenarsi e studiare. Un progetto ambizioso che senza questo viaggio in Italia non sarebbe mai partito. Ora abbiamo molto lavoro da fare, occorrono finanziatori e risorse. Per il resto il coraggio e la determinazione la mettiamo noi». E se lo dice lei, c’è da crederle.